1938. Nella neonata Tel Aviv l’esule ebrea Shosana, figlia del fondatore del movimento socialista sionista Ber Borochov, continua, come giornalista, l’utopia più che l’idea paterna portata avanti ora dai kibbutz, formazione di autodifesa degli insediamenti ebraici sorta nella Palestina sotto il protettorato britannico.

A scompaginare i piani, però, irrompe l’amore (e l’Inghilterra): la ragazza incontra l’agente Tommas Wilkin (Doughlas Booth), vice-sovrintendente della squadra anti-terrorismo britannica. Il giovane detective deve fronteggiare gli estremisti ebrei, guidati dal carismatico poeta e rivoluzionario Avraham Stern: a suon di attentati, esplosioni ed esecuzioni sommarie in città i ribelli rivendicano il controllo della Palestina senza intromissioni straniere, decimando prima la popolazione islamica e poi anche le stesse milizie britanniche.

L’eclettico Michael Winterbottom guarda ancora alla Palestina, crocevia e sineddoche delle guerre contemporanee, questa volta per fare i conti con le pagine più oscure del colonialismo britannico. In principio fu il doc, non distribuito in Italia e co-diretto con Michael Sawwaf Eleven Days in May sul bombardamento israeliano che uccise 60 bambini a Gaza nel maggio 2021. Ora sceglie lo sguardo al passato, torna al thriller storico (nel 2018 fu Greed – Fame di soldi) a sfondo sentimentale per giocare di sponda con la Storia, per interrogarsi, con inquietudine mista a sconforto, sulle ragioni profonde di un conflitto così logorante, ora più che mai, che la guerra che continua a mietere vittime innocenti. 

Il regista inglese (anche co-sceneggiatore e co-produttore) vuole rispolverare la radice del conflitto attuale, capire le ragioni tanto dei palestinesi quanto degli ebrei, condannare gli estremismi (come avvenne per A Mighty Heart – Un cuore grande), denunciare le ingiustizie, elevare l’amore dentro la guerra, elogiare (ancora) le vita che prosegue nella devastazione, sullo sfondo quel decennio fatidico che si concluse con la costituzione dello Stato d’Israele nel 1948. 
Ne esce un film vibrante, cadenzato, misurato. Shoshana, nello sguardo mutevole e pur nell’ancoraggio alla cronaca, sa maturare una posizione autocritica e a tratti impietosa verso il colonialismo inglese. Un controllo predatorio, in fondo incapace di comprendere a fondo le dinamiche sociali e culturali del territorio (simbolo ne è lo spietato agente Geoffrey Morton interpretato da un livido Harry Melling).

Il period drama, così, si muove a pendolo tra la fiction e i cinegiornali colonialisti (British Movietone News, Pathe Gazette e Gaumont British News), tra la sanguinolenta cruenza della spy story e la calma tenerezza della trama sentimentale.

Eppure oltre il sostrato storico, è proprio la tragica love story tra due diversi, allegoria di inconciliabilità in un territorio che rimane smembrato, tra la barricadiera Shosana e il ligio Tom a regalare i momenti migliori di un film viziato forse da un eccessivo controllo di regia, che oscura e di rado tronca le varie sfumature emotive offerte dalla sceneggiatura.

Così Douglas Booth – in una Puglia meridionale che la cinematografia di Giles Nuttgens traveste da Palestina – conferma, senza strafare, l’abilità nel giocare con la maschera del belloccio impenitente, ma a farsi apprezzare è l’acribia della risoluta Irina Starshenbaum, assai abile nell’incarnare e restituire le sfumature interiori, i travagli e i convincimenti di una femminista battagliera che, non rinnegando i suoi convincimenti politici, si armò per un’ideale che smentì amando. A costo di enormi lacerazioni.