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Sembra una vecchia storia, uno di quei corsi e ricorsi che riempiono le cronache. Cosa fare quando si è in crisi? Se lo chiedeva il cinema con l’avvento della televisione, se lo chiede oggi la serialità televisiva quando, dopo l’età dell’oro d’inizio secolo e il periodo di saturazione della Peak tv, le produzioni sono in contrazione e le piattaforme sono in perdita. E la risposta, come 70 anni fa, sembra la stessa: più spettacolo e più grande.
Non funzionò del tutto allora e nemmeno oggi, pensando ai flop piuttosto rumorosi di Il signore degli anelli, La ruota del tempo e Citadel. Ci sono però anche delle bellissime eccezioni, come Shōgun, la miniserie targata FX, che in Italia viene diffusa da Disney+ sotto il marchio Star. Ideata da Rachel Kondo e Justin Marks a partire da un romanzo best-seller di James Clavell, che già nel 1980 aveva dato vita a una miniserie, racconta la storia di John Blackthorne (Cosmo Jarvis, ispirato a William Adams) che nel XVII secolo naufraga sulle coste del Giappone, mentre infuria la lotta tra i signori feudali per diventare shōgun, in particolare si scontrano Ishido e Toranaga (Hiroyuki Sanada, che ricalca i tratti del vero Tokugawa Ieyasu). Blackthorne, diviso tra la necessità di sopravvivere, la resistenza contro il razzismo dei giapponesi verso gli europei che tentarono la colonizzazione e la fascinazione verso usi, costumi e civiltà militare del Sol Levante, mostrerà il suo valore diventando il primo non-giapponese a essere nominato samurai.
Il racconto di integrazione culturale si inscrive nel più ampio quadro storico della presenza europea, in particolar modo portoghese, nell’area e l’influenza dei cristiani (che già aveva raccontato benissimo Martin Scorsese in Silence), ma si concentra ovviamente sul percorso di scoperta del mondo da parte di Blackthorne, la descrizione della società e dei suoi riti, fino a descrivere con perizia i rituali bellici e gli intrighi politici che poi sfociano in battaglie di grande impatto spettacolare. Il tutto nel segno, appunto, della contaminazione tra mondi e culture: a Blackthorne è affiancata Ochiba No Kata (Fumi Nikaido), concubina preferita di Toranaga, che parla fluentemente inglese, fa da tramite tra il mondo del pirata olandese e i signori della guerra nipponici permette al gaijin (la parola con cui i giapponesi indicano gli stranieri) di apprendere il senso del mondo in cui si è ritrovato a vivere, mentre coloro che lo “ospitano”, apprendono da lui tecniche militare considerate all’avanguardia. E, come impone lo spirito dei racconti di altri tempi, in cui il militarismo si stinge nell’attrazione del passato e dei suoi metodi, attraverso la guerra e il valore militare, gli uni cominciano a stimare e apprezzare gli altri, la battaglia acquisisce il ruolo di vero e proprio romanzo di formazione per adulti.
Cos’ha quindi di diverso e migliore Shōgun rispetto ad altri tentativi recenti di kolossal di valore nettamente inferiore? Innanzitutto, la cura e il rispetto del racconto, non necessariamente nel senso di fedeltà rispetto al romanzo di partenza, ma di modo di affrontare l’adattamento e, ancora più in profondità, l’immaginario che quel romanzo evocava. Senza fare paragoni di qualità, che risulterebbero ingenerosi per chiunque, il romanzo di Clavell guardava chiaramente a un’epica che, negli occhi di noi occidentali, era stata firmata da maestri come Akira Kurosawa. Il team di sceneggiatori, sette compresi i due ideatori, cerca di partire da lì, da quel senso a tratti disperato dei valori che la guerra ha costruito, per rendere più complessi e interessanti i personaggi che racconta: al netto dei colpi di scena e degli avvicendamenti appassionanti che scorrono sullo schermo, la miniserie opera un buon adattamento perché crea un gruppo di caratteri piuttosto intenso, pieno di sfumature, capace di attrarre anche quando parlano di questioni che a un pubblico “generalista” potrebbero non interessare, oltre a non tradire il senso e il cuore della vicenda di partenza, riuscendo anche a non scadere nel melenso quando si affrontano nodi più intimi e sentimentali.
Inoltre, c’è il comparto visivo, quello a maggior rischio, specie perché la produzione ha subito uno stallo nel 2019 che ha portato a varie riscritture e a un aumento del budget, lievitato a circa 250 milioni: laddove tutti gli esempi fatti sopra, ma se ne possono aggiungere anche altri, fate voi i nomi, puntavano su immagini laccatissime e un uso poco raffinato della computer grafica, Shōgun prende gli stessi elementi - patina dell’immagine e post-produzione digitale - e, grazie all’intervento di sei registi, di cui due giapponesi, fa in modo di renderli più vicini possibile a una resa cinematografica. Anche in questo caso, oltre al valore professionale e al talento dei tecnici coinvolti, va sottolineato l’impegno fin dalla concezione, la dedizione con cui si è lavorato alla resa finale delle immagini, dei colori, degli effetti, per dare alla miniserie sia il giusto tono da grande saga epica, con il fuoco, le esplosioni, la violenza, l’azione, l’avventura e il dolore, la gloria e la liberazione tutte mescolate attraverso la forza evocativa e grandiosa della messinscena, sia la forza immaginifica della ricostruzione storica, guardando al passato come materia di racconto non come velatura vintage a uso e consumo di un pubblico distratto.
Shōgun prosegue quindi un filone abbastanza recente, figlio della globalizzazione estrema dell’audiovisivo da piattaforma, che riscopre il rapporto con l’Estremo Oriente, l’attrazione visiva per la sua cultura, cercando di non cadere mai nello stereotipo vieto e nell’esibizione baracconesca, ma lavorando con gli attori (perfetta la faccia di Jarvis, splendida la dignità di Sanada e Nikaido) per intrecciare relazioni emotive e di senso che amplifichino la portata dello spettacolo. Missione riuscita.