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Shirin
Centotredici attrici iraniane, insieme alla "turista di lusso" Juliette Binoche, per cinque minuti a testa sedute davanti un pannello bianco segnato solo da tre punti neri; poi la scrittura della storia e sei mesi di montaggio. Questo in estrema sintesi il procedimento dietro la genesi del film più radicale e a suo modo più cinematografico di Abbas Kiarostami, non solo uno dei più grandi registi del cinema contemporaneo, forse anche uno tra coloro che di più nel suo cinema mette la riflessione sul proprio "mestiere".
Per un'ora e quaranta si alternano volti di donna incorniciati dal tradizionale chador: in questo mutevole paesaggio si leggono i riverberi del poema persiano che intanto sullo schermo - mai compreso nell'inquadratura - racconta la tragedia amorosa tra la principessa armena Shirin e il re Khosrow (vicenda al centro di un poema persiano del dodicesimo secolo, già oggetto di più d'una messa in scena teatrale diretta da Kiarostami). La narrazione - che non casualmente si centra sull'importanza delle immagini -, lasciata nella penombra della colonna sonora, paradossalmente amplifica la sua potenza suggestiva, proiettando nelle continue micro fibrillazioni dei volti delle spettatrici le ipotesi infinite d'immagini inesistenti.
Incredibilmente affine al memorabile corto che negli anni settanta il lituano Herz Frank realizzò "semplicemente" registrando le reazioni di un bambino davanti a uno spettacolo di marionette, il film di Kiarostami non si limita ad una vieta metariflessione sul mezzo cinematografico; con coraggio invece s'interroga prima di tutto sullo speciale statuto dello spettatore cinematografico, polo del dispositivo sempre meno certo e definito, per poi spingere il discorso del film fino ai limiti della visione, al senso del non-visibile. Se il regista compone il suo lavoro muovendo da una domanda, non può che essere l'interrogazione la via migliore per percorrerne l'elementare nitida vastità.