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She Came to Me
Un compositore d'opera in crisi creativa (Peter Dinklage) e un capitano di rimorchiatore dipendente dal romanticismo (Marisa Tomei), una psichiatra ossessiva in crisi mistica o giù di lì (Anne Hathaway) e uno stenografo di tribunale ultraconservatore (Brian d’Arcy James) e, meno male, una giovane coppia innamorata e ammalorata dagli adulti (Harlow Jane e Evan Ellison): è She Came to Me firmato da Rebecca Miller e scelto dal direttore artistico Carlo Chatrian per aprire la 73esima Berlinale.
Che la Miller non fosse (Angela nel 2002, Personal Velocity nel 2004, The Ballad of Jack and Rose nel 2009, The Private Lives of Pippa Lee nel 2015, Maggie’s Plan nel 2017) una regista per cui spellarsi le mani e spalancare gli occhi era chiaro persino a lei, che il cast decida sovente le inaugurazioni evidente a chiunque bazzichi i festival, eppure questo film consolida entrambe le certezze.
Poca cosa, appena rischiarata da un’inversione di qualche pregio: la vita ha una felicità che l’arte non conosce.
Ballata popolare con ambientazione operistica nelle intenzioni, Romeo e Giulietta sullo sfondo di un’America divisa nel canone, lavora su destini e coincidenze, incontri e disaccordi per tessere una partitura umana, invero, senza troppe sorprese: coppie miste, folgorazioni religiose, dipendenze sentimental-erotiche, crisi di panico, patriarcato, tutto frullato – pardon, centrifugato – con un occhio spalancato sull’agenda politica, il women’s empowerment innanzitutto, e l’altro chiuso sulla sceneggiatura.
Non c’è reale conflitto, solo vie di fuga, per lo più per mare, non c’è introspezione solo sintomatologia, sicché il sesto lungometraggio da sceneggiatrice e regista di Rebecca "Figlia di Arthur” Miller si risolve nell’irresolutezza: saranno stati contenti gli attori – Dinklage rifà Cyrano, Hathaway sé stessa, Ellison studia da Chalamet – ma noi possiamo esserlo?