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Shanghai Dreams
Per un'analisi attenta dell'ultimo film di Wang Xiao-shuai, bisogna partire dai canoni estetici della messa in scena. Seguire Shanghai Dreams è prima di tutto un atto di fede verso la forza intrinseca del taglio che si dà ad un'inquadratura, del tempo che si lascia alla sequenza, dello spazio inglobato, e non, che volontariamente viene ripreso. Potremmo azzardare un paragone, senza generalizzare, a quel cinema che appartiene ad autori come il taiwanese Tsai Ming-liang o Hou Hsiao-hsien, piuttosto che al più prossimo compatriota Zhang Yimou: la forma è contenuto, prima di ogni altro assunto teorico del fare cinema. Da qui, a cascata, viene la storia, la direzione d'attori, il sottotesto storico-politico. Questo per dire che in Shanghai Dreams, il conflitto bradisismico padre/figlia, la traccia impercettibile di ritratto generazionale, l'abbozzo all'analisi interiore della protagonista, sono ipotesi di sviluppo narrativo, lasciate a bagnomaria e infine rese dipendenti dalle scelte pratiche di regia sul campo. Ne risulta un'opera piuttosto freddina e rallentata anche se incredibilmente affascinante e ipnotica. Perché Wang, pur ragionando sulla storia patria, sui diktat di politica nazional-popolare maoista e postmaoista (la famiglia operaia Wu viene spinta "governativamente" a trasferirsi da Shanghai all'arido posticino occidentale di Guyang durante gli anni '60, mentre con Deng negli anni '80 viene invitata a far ritorno a Shangai, come altre migliaia di nuclei familiari), è davvero attento nello scomporre il quadro e ricomporlo attraverso la modulazione pacata di campi lunghi e mezzi busti, di piani sequenza o lenti e prolungati accompagnamenti di macchina da presa dei protagonisti. Non manca nemmeno un sarcasmo "cool", verso mode e trend musicali (Teresa Teng e Boney M) e di abbigliamento (pantaloni a zampa d'elefante) presi in prestito dall'Occidente. Ne esce un film semiautobiografico di sacrifici paterni, incomprensioni familiari, brandelli di storia di un paese oggi più che mai trasformato in baraccone postmoderno.