PHOTO
Thinley Lhamo in Shambhala di Min Bahadur Bham
La poliandria è il tipo di poligamia che si instaura tra una donna e due o più maschi, quasi sempre provenienti dalla stessa famiglia. Non è un matrimonio di gruppo, perché coinvolge più partecipanti di ciascun sesso, e, oltre a non essere riconosciuta legalmente in moltissimi stati, è proibita dalla maggior parte delle confessioni religiose induiste e cristiane.
In Shambhala, primo film nepalese selezionato per il Concorso di Berlino, il punto di partenza è proprio un matrimonio poliandrico: siamo tra le montagne dell’Himalaya nepalese e Pema sposa Tashi e i suoi due fratelli minori, con il benestare della famiglia e della comunità. Le cose sembrano procedere bene, finché Pema resta incinta: poiché Tashi non riesce a tornare da un viaggio di lavoro, tutti mettono in discussione la paternità del bambino in grembo. Si ipotizza che a metterla possa essere stato Rami, il maestro del vilaggio, l’unico che non indossa gli abiti tradizionali ma un piumino, e però Pema non ci sta: delusa per le malelingue e convinta del proprio amore, si fa accompagnare da Karma, il fratello monaco di Tashi dunque altro marito. Quando deve tornare al monastero, Pema resta sola: deve affrontare il viaggio in uno spazio ostile, mentre cade la neve e si perde l’orientamento, ma l’obiettivo originario (è come se fosse una specie di “storia del rimatrimonio”, ovviamente senza commedia) sfuma in qualcosa di più personale.
D’altronde è il titolo a dircelo, quasi fosse uno spoiler: per la tradizione del buddhismo tibetano, Shambhala è un regno mitico e segreto, una “terra della beatitudine”. Secondo lungometraggio di Min Bahadur Bham, vincitore alla Settimana della Critica di Venezia con l’esordio The Black Hen (2015), girato nell’insediamento più alto del mondo (tra i 4.200 e i 6.000 metri sopra il livello del mare), questo film fluviale (due ore e mezza) sfiora qua e là l’esotismo nello sguardo (c’è una super-coproduzione alle spalle: Nepal, Francia, Norvegia, Hong Kong, Turchia, Taiwan, USA, Qatar) ma riesce a rappresentare un mondo perlopiù sconosciuto a noi occidentali con empatia e lucidità.
L’autenticità è garantita dal coinvolgimento di interpreti perlopiù non professionisti, effettivamente residenti in quelle zone, ma non si tratta solo di una facile attestazione realista: laddove si ha come l’impressione di osservare una vicenda fuori dalla contemporaneità, sono proprio gli attori e le attrici a rivelarci che si tratta piuttosto di qualcosa che sta dentro il presente ma è astorico (le foto, l’orologio, i giubbini non sono anacronistici o fuori luogo: ci ricordano che stiamo qui e ora).
E infatti, a mano a mano che procede con il suo passo lento ma non apatico, Shambhala si fa trascendente: non solo per suggestioni cosmiche a misura di bambino (i morti che diventano stelle vegliandoci dall’alto) e innesti seppiati che trasfigurano l’avventura della gravidanza, ma proprio per un cammino spirituale che tocca temi come l’essere donne in una comunità (per un po’ lo si immagina come il tirocinio matriarcale di Pema), il rapporto con gli animali (le pecore da accompagnare nella crescita, il cavallo come mezzo di salvezza), il dialogo con la natura (acqua e vento come vettori di cambiamento). “Niente è permanente” dice Pema: una dichiarazione d’intenti.
A sottolineare le risonanze tradizionali, la pratica di incidere ricordi sulle pietre: c’è un momento struggente in cui proprio a questi manufatti è affidato il compito di raccontare i tormenti di un personaggio. Ma c’è proprio un’attenzione al narrare che è ben espressa dai titoli di testa, che raccontano la storia attraverso esemplificative immagini tradizionali (narrare per immagini) e dai passaggi musicali (narrare per suoni) che rendono Shambhala un film magari non per tutti (“da festival”? Forse sì) ma credibile e affascinante.