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Shadow
Accolto con entusiasmo da festival, maestri (sceneggiatura "approvata" da Dario Argento) e cultori, Shadow segna l'ingresso nell'horror di Federico Zampaglione che, a dirla tutta, qualche affinità col genere l'aveva già fatta vedere al debutto, nella black comedy Nero Bifamiliare.
Trama esilissima, come da durata (poco più di 70 minuti): un ex marine e appassionato ciclista (Jake Muxworthy) prova a dimenticare gli orrori della guerra irachena partendo zaino in spalla e mountain-bike alla volta di un paesino sperduto tra le Alpi italiane. Incontrerà una bella francesina (Karina testa), amante pure lei delle sgroppate in bicicletta, e due energumeni psicolabili che gli daranno la caccia tra i boschi, a colpi di fucile. Ma un essere terrificante ha preparato per tutti loro trappole e trattamenti ben peggiori...
Godibile prodotto d'intrattenimento, questo Shadow ha nelle atmosfere, nella confezione e in un "raffinato" grand guignol i suoi punti di forza, esaltati anche dalla partitura ipnotica (il sound a tratti richiama i Goblins) del fratello del regista, Francesco. Al netto di attese non elevate un esordio positivo insomma. Anche se, ad essere pignoli, la prima parte "all'aperto" - condotta sul filo di una tensione inesplosa - è molto meglio della seconda nella casa degli orrori - dove prevale la macelleria e una scontata strizzatina d'occhio al porn movie alla Hostel. Mentre il giubilo di molti per il ritorno agli spaghetti-horror è decisamente affrettato: certo Zampaglione non lesina omaggi - Argento e Bava su tutti - ma le citazioni travalicano gli italici confini pescando un po' ovunque, da Bergman (il mostro è ricalcato sull'oscuro signore de Il settimo sigillo) all'horror americano di questi anni.
Una specie di armadio del tempo da cui il regista prende quello che gli serve senza mai cucirsi addosso un abito originale. Insomma gira e rigira è sempre il solito immaginario, una volta di più in debito d'ossigeno. E l'enfasi sul messaggio politico è solo specchietto per le allodole, perché l'horror adulto l'ha sempre veicolato attraverso una personalissima "politica delle immagini". Cosa ben diversa dalla "politica nelle immagini" di oggi. Che è l'equivoco che scambia il travaso per rigenerazione, il maquillage per la pelle nuova.