Seven Veils, cioè i sette veli che Salomè muoveva danzando, dunque seducendo: figura biblica, ripresa da Oscar Wilde che, nella sua nota versione teatrale, attribuisce a lei e non alla madre Erodiade – come si legge nei Vangeli – la volontà unica della decapitazione di Giovanni Battista, per vendicarsi del profeta colpevole di non amarla.

Nel 1905 Richard Strauss vi trasse opera lirica, su libretto di Hedwig Lachmann, che la Canadian Opera Company ha portato in scena nel 1996 con la regia di Atom Egoyan, per poi replicare più volte fino al revival del 2023. Anno in cui lo stesso Egoyan, gloria cinematografica nazionale, ha intrecciato la ripresa scenica con una storia di finzione, in cui la regista teatrale Jeanine, chiamata a rimettere in scena l’opera del suo ex mentore e amante, si confronta con varie questioni irrisolte: i membri del cast (i cantanti sono gli stessi della compagnia, qui impegnati in versioni alternative di se stessi) si comportano in modo strano, qualcuno è riottoso rispetto alle indicazioni e qualcuno si lascia prendere la mano, e mentre si avvicina il gran debutto i fantasmi del passato bussano alla porta.

Ogni volta che un regista racconta la storia di un regista non possiamo non pensare alle corrispondenze tra finzione e realtà, ma Seven Veils (Special Gala a Berlino 74 dopo il passaggio al Toronto Film Festival) mette in chiaro sin dal titolo che la realtà è come una cipolla. I sette veli di Salomè sono i veli di questo film che è più un gioco di ruolo che un’ardita sperimentazione, dove gli schermi che abitano gli schermi sono l’immagine evidente di un discorso autoriflessivo, in cui le immagini esistono in funzione di altre, la tecnologia amplifica lo spaesamento e la verità non si può cogliere solo attraverso un punto di vista.

Non è solo sul piano teorico che Egoyan squaderna temi a lui cari: l’opera interroga la regista (e non viceversa), la narrazione si configura come specchio della sua esperienza (le attinenze con il suo privato sono programmatiche), i movimenti coreografici rappresentano ciò che sulla carta non è esplicito ma è in realtà piuttosto evidente. Sempre interessato a esplorare le frontiere della contraffazione e i desideri meno decenti, Egoyan ci ha abituato a film che si propongono volutamente scomodi, ma così intrappolati in un repertorio di allegorie e metafore che finiscono per risultare fin troppo schematici.

Seven Veils non fa eccezione, con la differenza che c’è qualcosa di tanto morboso quanto intrigante nei sottotesti: la faccia di Amanda Seyfried, un’attrice non particolarmente straordinaria che sta imparando a capitalizzare le zone d’ombra della sua immagine; le mattate dei cantanti alle prove; lo spettro paterno che aleggia, controlla e infine viene cancellato.