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Sette opere di misericordia
Classe '78, artisti, videoartisti, documentaristi, ed esordienti al lungometraggio narrativo con Sette opere di misericordia, unico italiano in concorso a Locarno, ora a Torino fuori competizione e prossimamente al 15° Tertio Millennio Film Fest, dopo aver vinto ad Annecy e Villerupt.
Sono i gemelli torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, che sublimano in chiave artistica e cinefila – sì, sono duri e puri – la misericordia caravaggesca: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, i carcerati, seppellire i morti. Il loro è un cinema autoriale, ma non chiuso, nella misura in cui chiede e concede allo spettatore di essere altrettanto. E non da qui, ma da sempre: cortometraggio d'esordio nel 2002, Il giorno del santo, poi Maria Jesus, L'esame di Xhodi, le installazioni (Love e No fire zone) in giro per il mondo e i documentari (Bakroman), i De Serio fanno sul serio.
La loro ultima “anti-eroina” è Luminiţa (Olimpia Melinte), una giovane migrante clandestina che sopravvive in una baraccopoli: ha un piano di salvezza – si fa per dire - e per portarlo a termine incappa in Antonio (Roberto Herlitzka), un anziano malato. Incontro-scontro, con ricadute inattese, almeno per gli spettatori: si parte dal nero dei titoli di testa, si arriva al bianco di quelli di coda, e il passaggio non è solo cromatico, ma morale. In mezzo, forse la scena più bella del cinema italiano ultimo scorso: nottetempo, Luminiţa muove avanti e indietro una palla cangiante per acquietare un neonato, cardine etico e drammaturgico del film.
Perché si può non essere malvagi e comunque vendere un neonato, fare i soldi a prezzo della vita altrui: non solo l'occasione, ma il corpo (del reato) fa l'uomo ladro, in una parabola che fa della laicità ortodossa il grimaldello per accedere al sacro, alla sua irredimibile violenza e al capro espiatorio.
I De Serio sono anche troppo austeri, la rarefazione indulge qua è là nella programmaticità a scapito dell'emotività, ma sono le necessarie coordinate di un discorso cartesiano, che si concede la bella immagine – d'altronde, sanno girare come pochi – ma non viene mai meno a una partitura cerebrale eppure umana, troppo umana. Che dire, sono davvero Opere d'arte.