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Sette anime
Traumatizzato da un terribile incidente d'auto che ha provocato la morte di sette persone, un esattore delle tasse (Will Smith) vuole redimersi salvandone altrettante. La scelta ricade su alcuni individui bisognosi di sostegno medico e dalla comprovata bontà. Ma sarà proprio una giovane cardiopatica (Rosario Dawson) a stravolgere i suoi piani e a riportarlo lentamente alla vita. Al suo secondo film americano - dopo l'acclamato La ricerca della felicità - Gabriele Muccino ritrova Will Smith in una parabola ambiziosa e cupa sulla forza del dolore e il significato della salvezza. Costruito come un vero e proprio giallo - Muccino gioca a carte coperte, e per tre quarti del film costringe il pubblico a seguire le mosse del protagonista senza esplicitarne il movente - Sette anime cerca di coniugare l'esistenzialismo di matrice europea con la sensibilità americana verso un cinema più esibito e spettacolare. Il regista romano rifiuta così ogni approccio emozionale e psicologico alla sofferenza preferendo raccontarne l'epidermide, le conseguenze determinate da una lacerazione interiore piuttosto che la lacerazione stessa. Consegnando però l'intimità all'azione, il dramma al melo-dramma (con inevitabile love story di sapore necrofilo), Muccino finisce per pervertire l'ordine simbolico del film, perché "usa" la storia e i suoi risvolti profondi in funzione dello spettacolo, non viceversa. Non sorprende dunque se la critica americana ha storto il naso parlando di religiosità new-age e intenti manipolatori: la spiritualità (e i supposti echi cristologici) rimane di facciata e temi delicati come il senso di perdita, il dono di sé, la compassione, vengono giocati su un piano puramente esteriore, come se bastasse un'espressione triste per parlare di tristezza e un'illuminazione tetra per comunicare l'abisso esistenziale. Così dopo il sorprendente esordio di due anni fa in terra straniera Muccino conferma i limiti di un cinema ancora troppo legato a un'estetica post-pubblicitaria, fatta di belle immagini, musica gradevole e poca sostanza. Non supportato nemmeno da Will Smith, in grande imbarazzo nei panni del samaritano che non vuole più vivere. Peccato per Rosario Dawson, l'unica che riesca a sembrare sincera anche quando prepara la parmigiana (sì, succede pure questo), e Woody Harrelson che spreca il suo talento nella parte di un pianista cieco ostinatamente buono e irrimediabilmente patetico.