Più si avvicinano le elezioni americane e più il cinema americano scende in campo, benché il grande schermo sia sempre più marginale rispetto ad altre pratiche mediatiche. Ma un grande cineasta lo si vede anche dalla coerenza e così Errol Morris, settantasei anni e una manciata di capolavori in carriera (citiamo almeno La sottile linea blu e The Fog of War – La guerra secondo Robert McNamara che gli valse un Oscar), con Separated (Fuori Concorso a Venezia 81) prende di petto quella che Jacob Soboroff, corrispondente politico della NBC (che produce il doc) e autore del saggio all’origine di ha chiamato “An American Tragedy”: la separazione delle famiglie di migranti.

Com’è noto, l’amministrazione guidata da Donald Trump applicò una politica di tolleranza zero nei confronti dell’immigrazione clandestina, detenendo gli adulti e trattando i bambini come minori stranieri non accompagnati. A prendere in custodia questi ultimi è l’Ufficio per il reinserimento dei rifugiati, un dipartimento mal gestito in cui alcuni dipendenti decidono di smarcarsi dalle direttive imposte dall’alto. Uno scandalo che provocò un’indignazione nazionale, tanto da indurre il presidente a “moderare” le misure.

Morris ricostruisce la vicenda a colpi di interviste, dando voce ai funzionari che si opposero alle linee governative, e servendosi qua e là di filmati di repertorio (c’è una conferenza stampa piuttosto inquietante in cui la portavoce dell’amministrazione, incalzata da un giornalista, fa un’imbarazzante scena muta). Ci sono anche innesti di fiction, piuttosto didascalici se non a tratti posticci, ma utili a restituire la dimensione di un dramma che è privato (persone che scappano da un destino violento e, una volta respinti, subiscono un’altra violenza) e pubblico (l’esplosione dell’elemento umano fa affiorare il cinismo di una politica populista, nazionalista e complottista).

Jonathan White
Jonathan White

Jonathan White

(Nafis Azad)

Separated è una celebrazione dei whistleblower e dei servitori pubblici che si mettono dalla parte giusta della Storia (qualche nome: Elaine Duke, ex capo ad interim del Dipartimento della sicurezza interna; Jallyn Sualog, burocrate dell’Ufficio per il reinserimento dei rifugiati, Jonathan White, funzionario del Dipartimento della salute e dei servizi umani che ha innescato il movimento) in opposizione a un bieco apparato di yes men servili e arrivisti incapaci di assumersi le responsabilità morali e civili (un nome per tutti: Kirstjen Nielsen, segretario della Sicurezza, prima ligia e accanita esecutrice della visione di Trump e poi “scaricata” dal presidente).

Interessante la chiusa finale in cui Morris precisa che l’amministrazione Biden, che ha mantenuto alcune misure introdotte dalla precedente gestione, non ha rilasciato dichiarazioni per il documentario. Niente di innovativo ma dritto, essenziale, efficace.