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Salma Hayek in Senza sangue - Foto Antonello&Montesi
La filmografia dell’Angelina Jolie regista sembra esistere per provocare chi ritiene il cinema hollywoodiano inadatto a raccontare la Storia e veicolare messaggi politici. Da quel lato – dice l’adagio – può venire solo il racconto dei singoli, non dei contesti. Solo i sentimenti privati, non gli afflati collettivi.
Il suo cinema vive tutto in questa dialettica, ed è interessante proprio in quanto tentativo di superarla. Ogni suo film, a parte By the Sea (2015), è un film di guerra. Ma ogni suo film è anche una meditazione sul concetto di famiglia, che usa le relazioni interpersonali come filtro attraverso cui leggere grandi tragedie storiche.
Bisogna renderle giustizia, e dire che questi film (per deboli che siano) non si limitano a ingrossare la pila dei melodrammi che riducono la Storia a location esotica. C’è davvero un progetto, che non solo dialoga con la sua fama di diva insieme attivista e materna, ma che da dentro le immagini pone domande sincere e affatto banali su come i conflitti distruggano e riplasmino il tessuto sociale delle comunità.
Senza sangue ne è la sintesi perfetta: di nuovo padri, fratelli e figlie per raccontare conflitti, faide, vendette. Di nuovo un war melodrama, dove però - come nel romanzo di partenza di Alessandro Baricco (2002) - la guerra è una guerra ipotetica e immaginata. Grado estremo di universalità cui corrisponde un altrettanto estremo pericolo di vaghezza.
Il problema, come per quasi tutti i film firmati da Jolie, non è in questa scelta di astrazione. È invece cinematografico, interno a logiche di funzionamento spettacolare che aspirerebbero a un neoclassicismo “eastwoodiano”, ma che regolarmente crollano sotto il peso di sceneggiature inadeguate al compito.
Non è facile trovare una filmografia hollywoodiana che mostri meno senso per le strutture narrative: eppure Senza sangue riesce a spiccare in negativo. Dopo l’introduzione quasi western in cui assistiamo allo sterminio della famiglia della protagonista (Salma Hayek), e dopo che lei rintraccia uno dei colpevoli (Demián Bichir) interrogandolo sugli avvenimenti, il film si fossilizza in un’atroce struttura a flashback, che (anziché digerirle in una narrazione indipendente) si limita a rivomitare intere sezioni del libro illustrandole con le immagini.
Il risultato è interminabile nonostante la breve durata, con la pigrizia dell’adattamento dolorosamente sottolineata da dialoghi che rilanciano l’ennesimo soliloquio (“cos’altro sa di me?” “continui a raccontarmi i suoi ricordi”) e conferma per l’ennesima volta che Jolie farebbe meglio a collaborare con altri allo sviluppo delle sue idee.
Quando l’ha fatto il risultato fu Unbroken (2014), malignato per qualche eccesso martirologico, ma dove i suoi temi poggiavano finalmente su una narrazione organica e ben congegnata. Quella volta alla sceneggiatura c’era il super team dei Fratelli Coen, Richard LaGravenese e William Nicholson. E la differenza si vedeva...