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Sembra mio figlio è il secondo lungometraggio di “finzione” di Costanza Quatriglio, a 15 anni da L’isola, che nel 2003 la portò alla ribalta della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Nel mezzo tanti, valenti e pluripremiati documentari. Si sente forte, e non solo per le location persiane, la prossimità al cinema iraniano, in particolare quello del compianto Abbas Kiarostami: contiguità poetico-stilistica, perché l’urgenza civile, l’impegno politico, l’afflato umanista non prevengono né sovrastano mai le immagini, al contrario, ne sono il precipitato. Sono immagini, scene e sequenze impegnative, da sempre, quelle di Quatriglio. E la “finzione” non fa eccezione.
Scampato alle persecuzioni in Afghanistan ancora bambino, Ismail (Basir Ahang) vive in Europa con il fratello Hassan (Dawood Yousefi): la madre rimasta in patria, anzi, nel vicino Pakistan improvvisamente non lo riconosce più. E’ tempo di partire, lasciandosi dietro quella che è più di un’amica (Tihana Lazovic, già apprezzata in Sole alto) per fronteggiare non solo le vicissitudini familiari, ma il destino di un intero popolo, gli hazara.
Oggi otto milioni di persone, quelle sopravvissute a crimini di guerra, contro l’umanità e, sì, genocidio: in origine buddisti, poi sciiti perseguitati dai sunniti sia in Afghanistan che Pakistan, furono sterminati già nel 1890 dal re Abdul Rahman Khan, e nei primi mesi del 2018 già un migliaio ha perso la vita tra attentati e attacchi suicidi.
Quatriglio travasa e trasforma le vite, le storie – su tutte quella di Jan, ovvero Mohammad Jan Azad, qui co-sceneggiatore – già raccolte e filmate nei doc Il mondo addosso (2006) e il corto Breve film d’amore e libertà per enucleare nel dramma degli hazara il rapporto primario figlio-madre, in cui la cineasta condensa la dialettica fertile e umanissima tra conoscere, riconoscere e conoscersi.
Se la sceneggiatura tra ellissi, non detti e salti è sfidante, Sembra mio figlio istruisce senza infingimenti né paradigmi il parallelo tra il ricercare una madre e il cercare di fare cinema, pigiando sul minimo comune denominatore dell’umanità o, meglio, dell’appartenenza al genere umano. Una questione che si fa strada nei silenzi di Ismail, nella fisicità così calma e dirompente insieme del poeta Basir Ahang, di cui risuonano muti i versi: non è un film perfetto, Sembra mio figlio, ha tutte le imperfezioni che fanno l’uomo, le mancanze che chiamano alla complementarità, la necessità di uno sguardo altro. Il nostro: sembra mio figlio, è uno spettatore.