Siamo a Le Havre. La giovane ragazza nera Joy (Sonia Bonny) è un’orfana che non hai conosciuto i genitori, molto cattolica, credente e praticante a tal punto da assistere il prete della sua chiesa, un uomo malato terminale e consapevole che gli resta poco da vivere. La quotidianità di Joy è l’altare, poco altro. All’improvviso irrompe la svolta che funge da innesco per l’intreccio: proprio tra le sacre mura incontra un ragazzo, Andriy (Volodymyr Zhdanov), ferito e sanguinante, che viene ulteriormente picchiato davanti a lei. Decide di aiutarlo. Questa la premessa di Selon Joy, esordio al lungometraggio di Camille Lugan, presentato a Venezia nella sezione Giornate degli autori. Una delle sorprese più affascinanti e oscure del festival.

Partendo dalla premessa religiosa, infatti, il racconto diventa presto un noir. Ma non prima di sfiorare la pista cristologico-erotica: Joy aiuta Andriy adagiandolo nella vasca da bagno e procede con l’abluzione, passando la mano sulle sue ferite – una al costato – che ricordano proprio quelle inflitte al corpo di Cristo. Ma allo stesso tempo si sente attratta dal giovane caucasico, interviene un impulso che va oltre il dettato cristiano dell’aiuto al bisognoso ed entra chiaramente ella sfera sessuale. Da quel momento Joy seguirà il suo “cristo” nel mondo del crimine: un universo sotterraneo e notturno, da cui il ragazzo proviene, come facilmente intuibile dall’incipit violento, e a cui si avvicina in modo insospettabile anche la ragazza di chiesa.

Lei conosce la banda dominata un’obliqua figura femminile, detta Mater, altro riferimento biblico, incarnata da Asia Argento che dirige il traffico criminale; nell’apoteosi festeggerà distribuendo pasticche agli adepti che le attendono a bocca aperta come fosse un baccanale. La neofita Joy passa dal semplice spaccio, consegna di merce di casa in casa, sino alle attività più svariate per ritrovarsi strafatta di droga. E incartarsi in una china fatale, perché la frequentazione con la piccola mafia locale non prelude a nulla di buono…

La regista è molto abile a gestire il simbolo angolare della storia, ovvero il corpo di Cristo che diventa corpo criminale, inteso sia come organizzazione che come muscoli, pelle, epidermide del delinquente Andriy visto dallo sguardo di Joy. Non a caso prima la ragazza regale un’intesa sequenza di sesso, poi al culmine della tensione criminale lo immagina come Gesù sulla croce… In tal senso una parabola quasi iconoclasta. Da parte sua, la protagonista si chiede spesso cos’è la “grazia”, difficile da trovare in un sottobosco di emarginati scolpito nelle rovine industriali e

fabbriche dismesse. Dice la regista: “Sono ossessionata dal tema della grazia. Volevo avvicinare il pubblico che a una giovane donna che vive la fede con intensità, in un mondo che sta per crollare (…). Per la prima volta si avventura oltre i confini rassicuranti della chiesa, a rischio di perdere se stessa”. E se la vera grazia fosse una storia d’amore maledetta? Il film è piccolo (86 minuti), ma il coraggio, l’originalità, la provocazione che diffonde restano oltre lo schermo.