La smania di reality sembra ormai pronta a colonizzare il territorio ostile del grande schermo, lasciando sul campo di battaglia molte vittime illustri tra cui la credibilità e la potenza narrativa. Sbirri, di Roberto Burchielli, nasce con la presunzione di poter mischiare fiction, documentario e reportage giornalistico, dimenticando che ognuno di questi generi ha sviluppato un linguaggio specifico su cui fondare la propria autorevolezza e il proprio funzionamento.
Nel film, invece, Raoul Bova si infiltra assieme al regista in una Squadra Speciale della Polizia Antidroga di Milano, ricalcando lo stile di show televisivi come Le Iene pur senza rinunciare alla cornice melodrammatica. L'attore si presenta al pubblico nelle finte vesti di un reporter d'assalto, che si affianca al gruppo di agenti in seguito allo shock per la morte del figlio adolescente, stroncato in discoteca da una pastiglia di ecstasi. L'intenzione sembra quella di rafforzare l'effetto patetico della realtà attraverso l'impianto narrativo, ma il risultato è solo quello di rendere lamentosa la cronaca e asettica la finzione, annullando in un sol colpo tutte le potenzialità dei vari ingredienti del film. Un esperimento aberrante, che senza neppure accorgersene nega la capacità essenziale del cinema di indagare il mondo reale attraverso lo strumento cardine della rappresentazione.