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Sauvages di Claude Barras
"La Terra non ci appartiene, l'abbiamo presa in prestito dai nostri figli". Per il suo ritorno alla regia dopo quel gioiellino che era La mia vita da zucchina (2016), Claude Barras parafrasa in esergo il discorso che fece il Capo Seattle nel 1852 come risposta alla richiesta del Governo degli States di poter acquistare i territori degli indiani d'America.
La mission ecologista di questo suo nuovo lavoro in stop-motion, Sauvages (in Special Screenings a Cannes 77), è dunque chiara sin dal cartello iniziale.
Isola del Borneo, sud-est asiatico. Ai margini dell'immensa foresta tropicale in cui vive, Kéria, 11 anni, scopre un giorno un cucciolo di orango abbandonato nella piantagione di palme di suo padre. Mentre lei si prende cura della scimmietta, il suo cuginetto Selaï viene a rifugiarsi presso di loro per sfuggire al conflitto tra la sua famiglia e la compagnia di legname che sta deturpando quell’habitat. Da quel momento in poi, il trio combatterà insieme contro la minaccia di distruzione che grava su questa foresta ancestrale. E Kéria potrà scoprire qualcosa di più delle sue radici dagli indigeni Penan.
Si rimette a misura di bambino, Claude Barras, ma ancora una volta senza alcun tipo di condiscendenza o facile ricatto emotivo: se nel precedente lavoro (vincitore di due premi César e candidato all'Oscar) al centro c'era una storia di infanzia negata, questa volta imbastisce un pattern sicuramente più agevole per la fruizione destinata ai più piccoli, unendo alla vicenda portante - fortemente influenzata anche dall'attivista svizzero Bruno Manser, molto impegnato nella difesa della foresta del Borneo prima di scomparire in maniera sospetta... - la componente adventure e il fascino misterioso, non sempre accogliente (tra serpenti e ragni velenosi), che può riservare la vita nella foresta.
E' anche una storia di orfani, Sauvages, con Kéira che non ha più la mamma e Oshi, la scimmietta che adotta all'inizio della storia (dopo aver visto uccidere la madre a sangue freddo dagli uomini della compagnia), che in lei sembra trovarne una nuova.
Ma è soprattutto un romanzo di formazione che accompagna la protagonista alla piena consapevolezza di sé, ragazza "civilizzata" per essere salvata da un tristo destino (solamente verso la fine del racconto, finalmente, scoprirà com'è morta realmente la madre quando lei era piccolina) che invece saprà scegliere a chi, e cosa, appartenere.
Perché i Sauvages (selvaggi) - cosa che peraltro ripete in continuazione il boss del cantiere preposto alla deforestazione, rivolgendosi alla famiglia degli indigeni che si rifiuta di lasciare quelle terre - in realtà siamo noi, troppo spesso dimentichi di appartenere ad un pianeta che in realtà non ci appartiene. Ma che abbiamo preso in prestito dai nostri figli.