Circa mezz’ora prima della prima diretta del Saturday Night, Lorne Michaels si ritrova senza un tecnico del suono. È solo uno dei tanti, troppi problemi che stanno mettendo alla prova i suoi nervi: John Belushi non ha ancora firmato il contratto ma trova il tempo di fare a botte con Chevy Chase, un divano prende fuoco durante uno sketch, Jim Henson sta aspettando un copione per i Muppets nonostante nessuno le prese in giro di tutti, George Carlin dovrebbe presentare ma smascella per troppa coca, la signora della censura ha da ridire su espressioni come “pioggia dorata” e mentre la rete, la NBC, sembra fare il doppio gioco, c’è uno scenografo che mette dei mattoni al centro della scena sotto gli occhi di colleghi di altri settori che non muovono un dito.

In tutto questo casino, Michaels deve trovare qualcuno che si occupi del suono e allora corre (tutti i personaggi camminano per i corridoi come se fossero lanciati da cerbottane) verso un altro set: si sta registrando un varietà molto old school, sul palco c’è Milton Berle ben vestito che ammicca alla camera e ancheggia tra ballerine vestite in modo succinto. Ma non è quel teatrino un po’ imbarazzante a colpire Michaels: il suo sguardo cade sul regista, piuttosto âge, che fissa il vuoto e, peggio ancora, non si diverte. Nessuno si diverte lì dentro e per Michaels, ambizioso trentenne di belle speranze (Gabriel LaBelle, già giovane Spielberg in The Fabelmans, è strepitoso), è un’epifania: quel mondo dell’intrattenimento sta finendo, c’è spazio per la rivoluzione.

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Lorne Michaels (Gabriel LaBelle), Gilda Radner (Ella Hunt), John Belushi (Matt Wood) and Dan Aykroyd (Dylan O'Brien) in SATURDAY NIGHT.

La minaccia spesso, la rivoluzione, con ironia ma determinazione: lo fa ai piani alti del network, dove la vecchia guardia non riesce a immaginare davvero qualcuno che possa sostituire Johnny Carson nello slot del sabato sera. Del grande entertainer, all’epoca cinquantenne, sentiamo solo la voce – minacciosa e arrogante come tutti coloro che temono l’ascesa dei nuovi arrivati – e vediamo – simbolicamente – la pizza della replica pronta ad andare in onda in caso di fallimento del Saturday Night Live.

Le “messe a nudo” di Carson e Berle (in questo caso letteralmente, in un momento “what a fuck”, complice anche l’interpretazione sorniona del sempre clamoroso JK Simmons) non sono “cadute degli dei” quanto piuttosto la chiave d’accesso per capire l’importanza storica e l’impatto culturale di quella generazione di comici e umoristi raccolta attorno al Saturday Night (Live), la cui ora e mezza che precede la prima puntata dell’11 ottobre 1975 viene rievocata, quasi in diretta, dal magnifico film di Jason Reitman (in anteprima italiana alla XIX Festa del Cinema di Roma, in sala dal 21 al 23 ottobre).

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Jim Henson (Nicholas Braun) in SATURDAY NIGHT. © 2024 CTMG, Inc. All Rights Reserved.

Che non è solo un altro capitolo di quell’epica della nostalgia che il cinema americano sta costruendo in questi anni. In un frangente in cui l’audiovisivo ricorre ai brand per tracciare una sorta di mitologia sentimentale sul capitalismo e i suoi feticci (Air, BlackBerry, Tetris, Unfrosted, Super Pumped su Uber, ma anche il caso più estremo e “intellettuale” di Barbie), Saturday Night fa sì qualcosa di simile – celebrare l’impresa di un visionario che va contro la conservazione – ma uscendo sia dalla logica dello scolastico servizio all’impresa sia da quella dell’agiografia a tutti i costi (questi grandi personaggi che hanno fatto la storia dello spettacolo non rappresentano esattamente dei modelli emulabili).

Il merito è dello spirito del quarantasettenne Reitman (quindi nato due anni dopo i fatti narrati), che qui torna al meglio della forma (è anche sceneggiatore con il coetaneo Gil Kenan), esponente di una generazione per cui la nostalgia coincide con l’età dell’oro di una comicità perduta – per Reitman è un altro modo per omaggiare il padre Ivan, i cui film erano pieni di star del SNL e già celebrato dal figlio con il recupero sentimentale di Ghostbusters – e di un’America che cerca di uscire dalla paranoia attraverso un nuovo modo di ridere e far ridere (la fotografia in 16 mm di Eric Steelberg ricalca cromatismi e atmosfere della New Hollywood), ma anche di un momento olimpico in cui era bellissimo essere giovani e simpaticamente ribelli.

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Lorne Michaels (Gabriel LaBelle), Jacqueline Carlin (Kaia Gerber), Chevy Chase (Cory Michael Smith) in SATURDAY NIGHT. © 2024 CTMG, Inc. All Rights Reserved.

È un film forsennato e travolgente, Saturday Night, una specie di incontro tra le rapsodie pirotecniche e sovversive di Robert Altman e il “walk and talk” di Aaron Sorkin (non a caso autore di Studio 60 on the Sunset Strip, sfortunata serie sul dietro le quinte di un programma simile al SNL), che però ha l’intelligenza di concedersi momenti di tregua. Alcuni hanno a che fare con il distruttivo John Belushi (Matt Wood), peraltro colto in uno dei rari momenti fuori dallo studio, altri con le malinconie di Garrett Morris (Lamorne Morris) e di Jane Curtin (Kim Matula), ma sono il ritmo e la tensione a rendere incandescenti anche situazioni altrimenti quiete, come quando Rosie Shuster (Rachel Sennott, splendida) spiega a Dan Aykroyd (Dylan O’Brien) il motivo per cui il suo matrimonio con Michaels è ai titoli di coda (“A un certo punto ho capito che non ero né la sorella né la moglie: ero l’autrice”: il film è anche un omaggio alle donne che si sono emancipate grazie alla comicità, scritta o messa in scena).

Il cast di Saturday Night è pazzesco: citiamo almeno Cory Michael Smith (un Chase molto compiaciuto di essere stato definito “l’uomo più divertente d’America” dal New York Magazine), Ella Hunt (Gilda Radner, un po’ sacrificata come Emily Fairn nei panni di Laraine Newman), Nicholas Braun (straordinario nel doppio ruolo dei due outsider, Andy Kaufman e Jim Henson), Cooper Hoffman (il produttore esecutivo Dick Ebersol), Tommy Dewey (il sarcastico autore Michael O'Donoghue), Willem Dafoe (il dirigente della NBC David Tebet), Jon Batiste (Billy Preston ma anche compositore delle musiche), Matthew Rhys (George Carlin). E, alla fine, viene voglia di vedere davvero quella leggendaria prima puntata.