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Capita raramente, ma capita: che nell’istante in cui un film passa sullo schermo, abbagli così tanto la coscienza critica da rendersi un instant cult. Se è vero che in questo TFF 34 il concorso rappresenti un’attitudine più antropologica sul cinema (privilegiando lo studio su come la socialità si riflette nell’attualità), è nelle sezioni collaterali che si trovano le vibrazioni più forti: di certo con Sam Was Here, claustrofobico e angosciante come una trappola che si chiude all’improvviso.
Come tutte le storie migliori, parte lineare e affilato: un tranquillo venditore porta a porta nel deserto, lontano da famiglia e da ogni forma di civiltà, sente di essere braccato da un insolito serial killer, mentre il sottile rincorrersi è sottolineato da una voce off di un talk radiofonico.
Ma all’improvviso, tutto si impenna: toni, sangue, violenza, follia, la logica sfugge e segnali (rossi, nel cielo) trasformano l’opera di debutto di Cristophe Deroo in un capolavoro perturbante e ossessivo.
Non più thriller, non più horror; non -solo- indagine mentale ma -soprattutto- inseguimento sensoriale sovrapposto a quello geografico, Sam Was Here è ambizioso e fa man bassa di rimandi e citazioni (Rob Zombie, autore simbolo del cinema degli Anni dieci, ma anche Carpenter e Spielberg fino al Grande Fratello e una punta dello Shadow di Zampaglione) non si dilunga e non si illude con ritmi fuori luogo (dura solo 77’), ma con uno scarto da brivido lascia lo spettatore attonito e smarrito in un finale impenetrabile nel senso, sommuovendo causa ed effetto e avvitando la storia sui fantasmi psichici del senso di colpa. Sam Was Here riesce a non essere mai consolatorio, né derivativo pur vivendo di ammiccamenti cinefili: la forza travolgente e muscolare dello stile di Deroo emerge prepotente come i fantasmi dell’inconscio rappresentati da i personaggi di contorno, ognuno con una maschera di gomma a coprire il volto, negando ogni umanità o umanizzazione allo sguardo, contribuendo a chiudere la spirale di follia innescata dalle rosse luci nel cielo.
È l’inconscio che salta fuori da Sam Was Here, trasformandolo -come ogni film di genere che si rispetti- nello specchio della sua contemporaneità, ma costruita sui cadaveri dei personaggi, dentro la mente del protagonista, cresciuta dolorosamente sul rimosso e sul rimorso: il film diventa dunque un incubo della perdita di e da sé, ambientato in un (non) luogo allo stesso tempo astratto e materico, dove spazio e tempo si accavallano e lasciano spazio solo, inesorabilmente, alla desolazione di una solitudine.