PHOTO
Barry Keoghan in Saltburn
Non è più una donna promettente, Emerald Fennell, parafrasando il titolo del suo (sopravvalutato ma forte) esordio che le è valso l’Oscar per la miglior sceneggiatura. Con Saltburn, il suo secondo film presentato in Grand Public alla XVIII Festa del Cinema di Roma, non solo compie un passo avanti nel trascendere la teoria nella pratica, ma si rivela soprattutto autrice stratificata e spiazzante, capace di triangolare l’erotismo perturbante, il manifesto politico e un’eterogenea tradizione.
Come nei grandi romanzi della letteratura inglese, prende il titolo della tenuta in cui si svolge il racconto, un imponente castello in cui sono passati Riccardo III ed Enrico IV e aleggia il fantasma di una nonna, dove le camere abbandono ma i bagni sono da condividere, ci si ritrova in una saletta per ammazzare il pomeriggio e ci si riveste a festa per la cena, con uno sconfinato giardino dominato da un labirinto che è chiaramente un’allegoria (e le allegorie si sprecano: il teatrino con quattro pupazzetti, le tende come un sipario, lo “spogliatoio” tra le camere).
Fennell riscopre Teorema, lo riveste come se fosse nella parodia di un fashion film e trova il suo misterioso ospite in Oliver, un umile borsista che dai margini arriva a Oxford ed entra nelle grazie di Felix Catton, il ragazzo più popolare, ricco, bello, aristocratico, irraggiungibile della scuola. Amicizia suggellata dall’invito nella magione, per trascorrere un’estate indimenticabile: a poco a poco lo sconosciuto si insinua nei meccanismi di una nobile famiglia disfunzionale.
In questo senso Saltburn è un’acuta e feroce satira della società inglese che nei Catton intravede lo spettro della famiglia magna, cioè quella della casa reale: schiacciata dal passato (il décor pesantissimo del castello), intrappolata nelle formalità (il cambio d’abiti in base alle fasce orarie, il rituale dei pasti dalla colazione in giù), accomodata nel rivendicare il divario sociale (il maggiordomo è il capo e ha un cognome, del resto della servitù si può anche non sapere il nome), lieta di occupare il tempo con frivolezze (guai a fare discorsi impegnativi), sprovvista di senso genitoriale (i figli sbattuti nei collegi e cresciuti da altre figure), convinta di dover anestetizzare le emozioni (il dolore anzitutto).
Attorno a questo corpaccione teorico, Fennell costruisce un affascinante racconto di de-formazione, un incubo plasmato dalla meravigliosa fotografia ora pittorica ora onirica di Linus Sandgren, che convoca le suggestioni delle commedie nere degli Ealing Studios, l’estetica dei thriller erotici degli anni Ottanta, le perversioni che albergano in certi film di Joseph Losey e Basil Dearden dove il rigido riserbo inglese si scontra con l’esplosione del desiderio.
Al di là della carne esibita in primis dallo statuario Jacob Elordi (perfetto nel ruolo) che da giocatore si scopre giocattolo, quel desiderio – sessuale in superficie, politico in teoria, patologico nei fatti – si rivela attraverso la prospettiva di Oliver, che nel suo non essere canonicamente bello è il polo attrattivo di tutta la casa, a cominciare dalla madre “spaventata dalla bruttezza” (magistrale Rosamund Pike) che subito riconosce negli occhi dello sconosciuto la luccicanza della seduzione.
Un angelo della morte: lo capiscono tutti, dalla sciroccata amica di famiglia (Carey Mulligan) al padre d’antiquariato (notevole Richard E. Grant), perché il suo essere irresistibile coincide con la determinazione. Anche se non ha la bellezza abbacinante di Alain Delon in Delitto in pieno sole, ne segue le tracce per inquietante perversione: il sempre clamoroso Barry Keoghan è qui davvero mostruoso, soprattutto nel primo, grande colpo di scena che svela cosa c’è dietro la sua maschera. Interpretazione coraggiosa, la sua, perfino spericolata perché sospesa tra vampirismo e manipolazione, e a lui spettano alcune tra le sequenze più disturbanti delle ultime stagioni: c’entrano una vasca, del sangue, della terra umida.