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© TMS/Shueisha
Chi è Taro Sakamoto? Semplicemente, il più abile sicario che esista sulla faccia della Terra. Agile, preciso, spietato, è capace di evitare proiettili e sgominare intere guarnigioni di killer. Messo alle strette, può anche fare a meno delle armi e avere ragione del proprio avversario utilizzando semplicemente un paio di bacchette da sushi. Preparato ad affrontare qualunque ostacolo, Sakamoto soccombe all’unico che da sempre sconfigge la lucidità e la razionalità dell’essere umano: l’amore, nella fattispecie incarnato dalla dolce ma determinata Aoi.
Per lei, Sakamoto accetta di ritirarsi e vivere una normale esistenza da garzone di emporio, una vita sedentaria che - unita a bao di maiale e altre prelibatezze – lo farà ingrassare a dismisura. Ma anche così, lontano mille miglia dal suo corpo agile e dinamico, Sakamoto è tutt’altro che un essere innocuo da affrontare. Buon per lui, perché il passato, come da copione, sta per tornare a fargli visita: la mala non perdona chi le volta le spalle. Anche se forse, in questo caso, un’eccezione alla regola ci sarebbe stata bene.


L’incipit di Sakamoto Days, con l’innamoramento/ingrassamento del protagonista, è un high concept di rara potenza: non occorre calarsi nella cultura nipponica per identificarsi in un protagonista maschile che accetta di cambiare vita e abitudini, lasciandosi “andare” nel nome della famiglia. È la classica messa in scena del mondo ordinario, che si contrappone archetipicamente a quello straordinario, basamento di certo cinema crime di Scorsese. Ma a rendere geniale Sakamoto Days, sin dal manga, è la capacità del suo autore Yuto Suzuki di prendere a sberleffi questi cliché: innanzitutto, malgrado il suo fisico pachidermico (che omaggia l’iconico Anzai Mitsuyoshi di Slam Dunk), Sakamoto non ha affatto perso le sue stupefacenti abilità, e non è dunque l’eroe di una volta che ha “perso lo smalto”.
L’unico vantaggio che dà agli avversari è quello di non poterli uccidere, perché così ha promesso alla donna che ama (particolarmente collerica ogni qualvolta si accorge che il marito ha a che fare col suo passato): non abbastanza da impedire di sconfiggerli. Il grasso corpo di Sakamoto è dunque l’iperrealistica fusione tra mondo ordinario e straordinario: il secondo è ben chiuso nel primo, un’unica cosa, come yin e yang, amore e violenza.


L’iperrealismo (proiettili schivati, salti da un palazzo all’altro, muri sbriciolati dall’impatto coi corpi come nei fumetti Marvel) sconfina in un esilarante surrealismo, quando un Sakamoto messo alle strette da un avversario troppo ostico dimagrisce in pochi istanti, fino a recuperare un perfetto stato di forma, per poi ingrassare nuovamente in un pomeriggio a suon di ravioli. Il che, risate a parte, induce a un’ulteriore riflessione sul personaggio: che non è schiavo della moglie Aoi o succube delle sue decisioni, ma fieramente deciso ad autoplasmarsi come bonaria e rassicurante espressione del quotidiano, spiaggiato al proprio posto nel mondo impazzito alla perenne ricerca di senso del sé.
Tra esilaranti clienti dell’emporio, passati per eliminare Sakamoto e puntualmente rispediti via incerottati, e killer professionisti sempre più abili di puntata in puntata, Sakamoto avrà bisogno di una famiglia straordinaria, rappresentata dall’ex sicario telepate Shin e da Lu, svampita figlia di un mafioso cinese esperta in Taekwondo. Anche loro dovranno sottostare alle regole del mondo ordinario di Aoi: Sakamoto & C. non uccidono. E la loro messa fuori contesto li rende straordinari, assurdi, invulnerabili. E, vien da sé, irresistibilmente comici.