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Ha sedici anni Saimir (Mishel Manoku). La sua vita, da quando ha lasciato l'Albania per raggiungere il litorale laziale, non è particolarmente felice: seppur malvolentieri, aiuta Edmond (Xhevdet Feri), il padre, nei suoi viaggi notturni. Viaggi che, a bordo di un furgone sgangherato, servono per consegnare gruppetti di connazionali clandestini ai piccoli imprenditori locali. Conoscerà anche l'amore Saimir, ma l'amore fuggirà via da lui. E quando capirà che tutto quello che lo circonda non migliorerà mai - una ragazzina quindicenne venduta come una bestia da macello - preferirà la denuncia al silenzio. Opera prima di rara bellezza, Saimir raggiunge le sale dopo aver ottenuto molteplici consensi in vari festival nazionali e internazionali, tra cui Venezia e Berlino. Scritto e diretto da Francesco Munzi, il film ruota intorno alla quotidianità del suo magnifico protagonista, il non attore Mishel Manoku. La malavita, gli espedienti illeciti per comperare un costoso regalo, le corse su un fatiscente ciclomotore vengono raccontate con lo sguardo asciutto, mai commiserevole, del regista: c'è un po' de L'età inquieta di Dumont, un qualcosa dei fratelli Dardenne e molto talento in questo lavoro dell'esordiente Munzi (già autore di molti cortometraggi e documentari), davvero bravo a lasciar parlare gli indimenticabili volti dei suoi personaggi. Oltre al giovane Manoku ruba la scena il superbo Xhevdet Feri, attore fra i più noti della cinematografia albanese nonché docente di recitazione, duro e dolente genitore in continuo conflitto con il figlio. Girato fra Ostia, Fregene, Torvaianica, Civitavecchia e Roma, Saimir - nome di origine musulmana che significa "il giusto" - riesce a condensare la fragilità del vero alla poesia narrativa del racconto: la sequenza del furto nella villa signorile (tutta giocata sulla contrapposizione dello sfarzo e dell'incantata indigenza) ne è l'immagine più fortemente esplicativa.