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Sabbath Queen
Attualissimo. Per certi versi profetico (purtroppo). Sabbath Queen si chiude con una domanda rivolta a Israele e Palestina: “Come possiamo immaginare di nuovo le nostre sacre tradizioni per raggiungere la pace?”. La risposta, da quel 7 ottobre 2023, è ancora più difficile da formulare.
A suo modo, ci ha provato nel corso della sua vita il protagonista di questo documentario, girato nell’arco di ventuno anni, diretto da Sandi DuBowski (autore di Trembling Before G.d. e produttore di A Jihad for Love) e presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Special Screenings.
Lui si chiama Amichai Lau-Lavie, è erede di trentotto generazioni di rabbini ortodossi. Eccentrico e molto determinato, gay dichiarato negli anni ottanta si è trasferito a New York e ha inventato un personaggio: una drag queen in visone e sottoveste e parrucca bionda, vedova di rabbini. Studioso della Torah (“non è affidata ai rabbini, è un nostro diritto reinterpretare le nostre storie”), creatore della performance Storahtelling e del Lab/Shulan, una congregazione ebraica inclusiva che ammette tutte le religioni e ama l’arte e la sperimentazione. Divenuto rabbino lui stesso (“per cambiare il sistema devi diventare un virus e devi entrare nel sistema stesso”), ha reinventato cultura e religione attraverso la trasgressione e l’arte.
Il suo nome significa: “La mia nazione vive”. Da piccolo gli hanno insegnato che se un uomo giace nel letto con un altro uomo allora deve essere ucciso (insegnamento che lesse a tredici anni sul pulpito della Chiesa) e che i matrimoni interreligiosi non devono esistere. Ma per Amichai non tutto quel che abbiamo ereditato è degno di essere trasmesso. Per cui, per usare le sue stesse parole: “Io scelgo l’ebraismo che voglio”.
E quale è? Una religione in cui Dio è facoltativo, non è per forza di genere maschile, e ognuno è libero di rapportarsi con il senso del sacro come meglio crede. E così, attraverso filmati, interviste e immagini d’archivio, nonché brevi scene d’animazione, questo doc ci porta lentamente dentro il sistema ebraico ultraortodosso, senza giudizio, ma facendoci cogliere la complessità del reale fatto e pieno di voci divisive, non solo al suo esterno, ma anche al suo interno. L’impegno di Amichai è stato da sempre quello di avvicinare queste voci divisive e in un certo senso è stato tragicamente lungimirante, perché già nel 2014 aveva predetto che ci sarebbero stati sempre più ebrei di destra a favore della guerra.
“Questo orrore deve finire. È necessario un cessate il fuoco da entrambe le parti (ovviamente riferito a Israele e Palestina, ndr). Il mondo chiede ad ognuno di noi di fare quel che possiamo per il bene dell’umanità”, dice Amichai Lau-Lavie. Ecco purtroppo, in questi tempi di guerre, un personaggio come lui sembra sempre più una voce fuori dal coro.