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La nebbia della guerra. Così la chiamava Errol Morris nel documentario The Fog of War (appunto), sulla figura di Robert McNamara: quando scoppia un conflitto si alza una cortina di fumo che impedisce di vedere nitidamente cosa sta succedendo davvero. Un’idea che viene esplicitamente citata da Anastasia Trofimova, regista russo-canadese che porta al Festival di Venezia il documentario Russians at War, fuori concorso. Una delle opere più affascinanti di questa edizione, poco vista, proprio perché prova a diradare la nebbia e mostrare ciò che sta dietro le quinte della drammatica guerra tra Russia e Ucraina, iniziata con l’invasione di Putin. E il rimosso ha nomi e corpi precisi: quelli dei soldati. Trofimova infatti compie un gesto inedito, seguire un contingente dell’esercito russo in Ucraina. Senza permessi ufficiali si pone al seguito dei soldati con la sua cinepresa e gradualmente ottiene la loro fiducia. Riprende i loro volti, ascolta le loro storie, li interroga con pazienza e ottiene in cambio il dono del vero.
Tutto inizia nel Capodanno a Mosca, esattamente dopo un anno di guerra. La regista si aggira col suo obiettivo nella metropolitana e incontra un uomo vestito da Babbo Natale: in realtà è un soldato, Ilya, peraltro di origine ucraina che combatte per i russi, in quel momento sta tornando a casa per le feste. È il primo racconto che ascoltiamo senza finzioni o retorica. Da lì l’autrice inizia il viaggio, infiltrandosi in un battaglione che percorre l’Ucraina orientale. Segue gli uomini a passo di marcia, al piccolo trotto, che si rifugiano in vecchi edifici dismessi dell’ex Urss, segnati ancora dall’effigie di Lenin, oppure che sono costretti a eseguire gli ordini impartiti. Il doc ha l’intelligenza di non prendere posizione: i soldati russi a Mosca sono “eroi della patria”, come leggiamo sui manifesti, per l’Occidente sono criminali di guerra. Stretti tra due fuochi, tra due retoriche, scopriamo qui la terza via: sono semplicemente uomini.
Con i loro pensieri e opinioni, anche contrastanti, registrate con rispetto delle differenze. “Quando sono in guerra voglio essere dalla parte giusta, ma in Ucraina non abbiamo ragione”, dice apertamente un militare maturo, che ne ha viste parecchie. Un giovane è il suo negativo: “Combatto perché sono un patriota russo”. Insomma, tante voci si assemblano per formare un flusso magmatico che non fa politica, è squisitamente umanista. Il film inoltre smette la divisa per interpellare anche la gente comune, come un’anziana signora filo-russa che vive in Donbass, dove tutto è iniziato, dove – anche se nessuno lo sa – la contesa tra Russa e Ucraina per quel territorio va avanti dal 2014. Senza contare gli improvvisi slanci di vicinanza, perché russi e ucraini sono costretti a odiarsi dalla politica ma risultano fratelli nella Storia.
Poi in guerra, ovviamente, si muore. Il documentario offre improvvisi strappi di violenza, come il primo ritrovamento di un cadavere, che i soldati esaminano per capire esattamente a chi appartiene. Oppure il lancio di razzi. E ancora il video del ferimento di un ragazzo, che urla e striscia sul terreno nel tentativo di restare vivo. “Tento di toccare il volto del mio Paese come una bambina cieca cerca di riconoscere il volto della madre”, ha detto la regista. Russians at War esce dalla retorica della guerra e la riconsegna all’unica dimensione che conta: quella umana.