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Runner
C’è una Runner che sogna il grande cinema ma deve reinventarsi amazzone. C’è un agente compromesso che, con una coorte di aiutanti goffi e inadeguati, affronta un probo poliziotto declassato. C’è soprattutto un’immaginario canonizzato – l’action hollywoodiano anni Ottanta, da Die Hard fino ad Arma Letale - che flirta con un certo poliziottesco italiano.
Non mancano poi tempeste di proiettili, corse a perdifiato, camuffamenti e salti nel vuoto a cadenzare l’alleanza tra donne (la protagonista e la fantesca sordomuta), la battaglia dei sessi, il solco (mobile) tra legalità e illegalità, tra la vita e la morte. Il tutto incorniciato dal solito meta-cinema e dall’aristotelica unità di tempo (dal tramonto all’alba), luogo (un albergo del catanzarese) e azione (il duello tra la protagonista e l’agente dell’Interpol).
È la via italiana al thriller secondo Nicola Barnaba per l’unico titolo tricolore in concorso al meneghino Noir in Festival, prodotto da Camaleo e Blue Film, finanziato dalla Calabria Film Commission, distribuito da Plaion Pictures.
Ma il regista, che torna al genere (in principio fu Safrom, horror da cui mutua qui l’ambientazione isolata) dopo un parentesi comica (Una cella in due, Ciao brother), nella sincerità d’intenti, nella devozione cinefila, oltre il saldo involucro meta-filmico non offre radicalità e intraprendenza espressiva, né originalità di sguardo. Confondendo lo steccato tra Bene e Male, tra protagonisti “rotondi” e gregari di cartapesta, non si scrolla di dosso l’ombra dei padri putativi cui fa (continuamente) appello, imbastendo un notturno Frankenstein di citazioni che, nel realismo di partenza, si aggrappa alla tradizione senza - passateci il termine - “italianizzarla”.
Runner così rimane a metà del guado, tra Hollywood e la Sila, preda spesso di didascalismi, dizioni appannate e sovente stereotipiche, prevedibili capriole di trama e facilonerie di scrittura – l’albergo-fortezza favorisce il senso claustrofobia, meno la fluidità narrativa -, col solito montaggio tambureggiante, il ronzante commento sonoro, il simbolismo dei fondali (la color palette tra il violaceo e il blue elettrico è di Andrea Arnone), l’adrenalina sale solo a sprazzi, confusa da una coltre di imprecisione che confonde personaggi (trattasi, in effetti, di film corale) e registri (l’umorismo buffonesco che lega Montanari ai suoi collaboratori finisce sacrificato, ed è un peccato).
Cosa salvare allora? Oltre una certa inventiva (al netto dei nei, si fatica ad apparentare oggi Runner ad altre opere tricolori), la risposta più ovvia è la recitazione dei protagonisti: per una Gioli che dilata lo spettro espressivo, da amante lacrimosa a scattante fuggitiva, da gregaria a condottiera travolta da un vortice di violenza incontrollabile e costretta a reinventarsi Lara Croft per sopravvivere (per un frangente ne indossa pure il top nero), c’è un Francesco Montanari che rispolvera il solito grugno luciferino per il consueto ruolo di frontiera, in bilico tra il Bene e il Male. Ruolo che (anche qui) sintetizza, va da sé, il senso del film.