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Rossosperanza © FANDANGO
Un regista cinefilo come Luca Guadagnino sa che non c’è nulla di più politico di un mélo, perciò in un momento rapido ma incisivo del suo Chiamami col tuo nome lascia la scena a Elena Bucci e Marco Sgrosso, due teatranti al crocevia tra classico e contemporaneo, per una piccola messinscena sul discorso politico borghese, nella prima estate dominata da Craxi. È un passaggio apparentemente incongruo che però dà l’idea dell’orizzonte narrativo, con un élite ostile al potere – e, in quel momento, in particolare a quel potere – per vocazione culturale, discrepanza estetica, inconciliabilità emotiva. Che c’entra con Rossosperanza?
C’entra perché il racconto degli anni Ottanta, cioè una stagione ancora troppo vicina per essere lontana e viceversa, che non è né passato idealizzato né presente disprezzato né futuro temuto, sembra avere più respiro in quella scenetta di Guadagnino che nella scarsa ora e mezza di Rossosperanza, opera seconda di Annarita Zambrano dopo il controverso Dopo la guerra (in Concorso a Locarno) che vuole svelare le tenebre di una generazione (che è quella della regista), il salto nel vuoto (il Marco Bellocchio non riconciliato è un nume tutelare, ma più dell’odio verso la famiglia c’è un disprezzo nichilista) di una gioventù nata bruciata dentro il potere e le sue notti selvagge (il cinema francese come manuale estetico: un tempo delle mele marce).
Siamo nel 1990, l’anno dei Mondiali, ma, nonostante l’intenzione sia quella di annunciare il decennio dello sfacelo, del reset, della caduta, siamo ancora negli Ottanta: il potere ha le mille facce dell’universo democristiano (Andrea Sartoretti, uno e trino, ne è il volto uguale e sfuggente), Andreotti guida l’ultimo governo del pentapartito, il ministro De Michelis si chiede “dove andiamo a ballare stasera?” e una pantera si aggira per Roma dando il nome a un movimento studentesco. Nella congiuntura tra la sbornia edonista e l’esplosione delle tangenti, i giovani della Roma bene corteggiano la morte. E per questo i genitori, un po’ inetti e un po’ bigotti e un po’ corrotti, mandano i rampolli – efebici o tenebrosi, comunque incarnazioni di desideri perversi – in un esclusivo e lussuoso istituto di riabilitazione. Va da sé, gli intenti vanno a farsi benedire.
Si parte dal reale per sconfinare nel surreale: Zambrano è una “voce di dentro”, conosce la materia di cui sono fatti gli incubi, capisce che l’unico modo per incunearsi nell’aristocrazia nera romana è la sublimazione acida, un registro in cui collimano l’onirico, la satira, il grottesco. Incrociando gli stilemi di Yorgos Lanthimos e le suggestioni di Bret Easton Ellis con narratori italiani d’area borghese (La più amata di Teresa Ciabatti, Gli iperborei di Pietro Castellitto, ma anche il più lontano Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno), Zambrano si lancia dove si fermava Stefano Mordini ne La scuola cattolica, ma ci vuole polso anche nell’esibizione dell’osceno (non tutti sono Figli della notte, come nel feroce esordio di Andrea De Sica, altro regista borghese spietato nel rovesciare il romanzo di formazione dei privilegiati).
E così la regista sembra lasciarsi travolgere da una malia lomografica che le fa perdere di vista la temperatura storico-politica, appoggiando lo sguardo pur volenteroso su una sceneggiatura senza nerbo: lo scandalo è un’ambizione, il nichilismo pare una facciata, lo straniamento non regge la gravezza allegorica (la tigre, le esplosioni, gli inserti animati a cura di Alessandro Rak e Dario Sansone, anche loro di casa Mad, che produce con Rai Cinema, Big Sur, Skydancers e Tramp Limited), il finale è di prevedibile cannibalismo ammanitiano. D’altro canto, non si può accusare Zambrano di timidezza né di voler piacere a tutti i costi, e il tono acerbo degli interpreti ha anche una sua ragione d’essere.