Alice Rohrwacher e Albert Serra. Joachim Trier e Paolo Sorrentino. Wim Wenders (a benedire il secondo capitolo del progetto che ideò e a perpetuare sé stesso quarant’anni dopo) e Cristian Mungiu. David Cronemberg e Asghar Farhadi. Audrey Diwan e Baz Luhrmann.

Lubna Playoust – classe 1982, quando il regista di Paris Texas riuniva i colleghi nella Chambre 666 per discutere del futuro del cinema - rinchiude ora e ancora nella 999 di un hotel della Costa Azzurra (oltre le tende color panna si sta svolgendo il Festival di Cannes del 2022) il gotha del cinema mondiale per fare la biopsia alla Settima Arte al tempo della piattaforma. Stato cadaverico, prossimo morituro o splendida, insperata, ennesima giovinezza?

Tra le tante talking heads (una trentina circa, per neanche un’ora e mezza di girato) che si alternano sulla stessa poltrona serpeggia inarrestabile lo scoramento, la sfiducia, l’epicedio sussurrato, prefigurato, prossimo venturo. Ubi piattaforma, sala cessat è il mantra che si rincorre di regista in regista. Ma non sempre, tra lampi di ottimismo e dilatazioni di sguardo, qualcuno, prima di abbandonare la stanza, dunque la scena, annota che il problema, anzi il nesso causa-conseguenza è molto più grande di così. 

Nel caleidoscopio di opinioni, tutte variabili e non tutte memorabili, che cataloga la camera fissa di Playoust (rimangono le tende, un tavolino, una sedia, un mobile e una tv accesa simbolicamente su una piattaforma) il ragionamento sconfina e annette altre tendenze: il pubblico che si disaffeziona; la civiltà delle immagini; la società dell’algoritmo; la sala semivuota; i social media; gli steccati generazionali; i regimi e il senso politico delle immagini (di ogni immagine); l’onda lunga della rivoluzione digitale (per un Wenders catastrofista, c’è un Cronenberg aperturista); la libertà creativa; la civiltà dei consumi e l’impero delle merci.

Dall’iterazione della domanda, il ragionamento si allarga a raggiera. Il cinema sconfina nella società che lo produce e lo consuma. Il ventaglio si fa ampio e articolato a seconda di esperienze e sentieri culturali di provenienza. Le posizioni, nell’incertezza di fondo, ora collimano ora si scontrano. Prevale, ma carsicamente, la coscienza di essere in un epoca di transito verso un altrove che fatica a schiudersi, come l’idea di non mettere dighe alla rivoluzione digitale, ma piuttosto la necessità trovare la barca adatta per cavalcare senza esserne travolti.

Nell’unità di luogo, nel minimalismo scenico, nell’iterazione dell’identico, nel dubbio che resta, nei ragionamenti lenti che si affermano, Playoust, con la regia più impersonale e oggettiva possibile per la quale il documento sconfina nell’home movie, si limita a annotare, registrare e trasmettere.

Nella myse en abime si staglia la cinepresa come testimonianza ed estensione del dialogo per un doc nato per fare da gancio e tramite, tra il regista (l’uno che crea) e il pubblico (la moltitudine che fruisce). Per continuare a ridondare, tra sgomento paura e speranza, la domanda di fondo: il Cinema sta morendo?