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Romantiche
Di quattro una: Pilar Fogliati. L’attrice e comica classe 1992 (Forever Young, Odio il Natale) esordisce alla regia con Romantiche, prisma generazionale con indicazione geografica tipicissima, Roma, declinata tra fuorisede, aristofreak, parioline e straprovinciali.
Soggetto e sceneggiatura, cui si aggiunge Giovanni Nasta, a quattro mani con Giovanni Veronesi, non è affatto male, in ultima analisi perché, a differenza di tante commedie che si vogliono se non iconoclaste tout court ostative o belligeranti rispetto ai cliché, Fogliati coi luoghi comuni ci sguazza, fino a sovvertirli per esplicito trattamento iperbolico o, per farla spiccia, sovrautilizzo e sovraesposizione degli stessi.
Dunque, Eugenia Praticò, la wannabe sceneggiatrice fuggita da Palermo per inseguire un successo di nicchia e trovare invece una condizione da eterna coinquilina dislocata con inderogabile domicilio al Pigneto, complici improbabili copioni quali Olio su mela; Uvetta Budini di Raso, bel nome, l’aristocratica che si improvvisa panettiera forte della proprietà delle mura del forno, invariabilmente legata sentimentalmente a un cugino, liquida negli occhi e nella vita dorata; Michela Trezza, che fa professione di naïveté a Guidonia, sta per sposarsi ma prima deve fare i conti col bello (?) e dannato del paese; Tazia De Tiberis, purosangue di Roma nord, tutta squat ed empowerment femminile, fino – il fidanzato curioso - a prova contraria.
Se Uvetta e Tazia sono le più riuscite, tutte e quattro cercano il loro posto nel mondo, tutte e quattro vanno dalla psicoterapeuta (Barbora Bobulova), mettendo su schermo un minimo comune denominatore: il romanticismo, questo(mi)sconosciuto.
Detto che il nostro cinema non ha bisogno di film ma di spettatori, né tantomeno di interpreti disperatamente, per noi, votati alla regia, detto che il calco – quattro episodi con altrettanti personaggi - è di Un sacco bello del prediletto Verdone, Romantiche gode della levità e dell’eleganza dell’attrice, sceneggiatrice e regista, di una sottrazione di modi, si direbbe, che lavora dialetticamente con gli stereotipi, di uno stile elementare senza sciatterie, in definitiva, di un percepibile e financo contagioso candore. Ah, si ride, sì.
PS: che una donna, peraltro esordiente, faccia oggi un film a episodi dice di quanto siamo cambiati. O, meglio, ritornati al futuro.