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Il robottino Rodney
E' troppo piccola la realtà circostante per le aspirazioni del giovane Rodney, robot geniale - cresciuto con pezzi di ricambio dismessi - che sogna di diventare un famoso inventore. La sua America è lì, a Robot City, metropoli che nulla nega a chi vi si porti carico di speranze. E proprio lì, a Robot City, Rodney andrà in cerca del suo idolo Bigweld, popolare ideatore di migliorie per i suoi simili, ora svanito nel nulla con l'avvento del malvagio Ratchet, magnate senza scrupoli. Da un canovaccio tutto sommato semplice e poco originale, Chris Wedge - già regista de L'era glaciale - costruisce un mondo a misura di Robots: tutti i personaggi, pensati né più né meno alla stregua di esseri umani, sono di metallo - i più abbienti e fortunati rivestiti in acciaio, gli altri assemblati coi rottami - e ognuno deve le proprie caratteristiche formali a qualche oggetto inanimato (una lavastoviglie, un macinino per caffè, un motore fuoribordo). Forte di un impianto scenografico mozzafiato - la megalopoli è rappresentata come gigantesca aggregazione multilivello sviluppata verticalmente, i trasporti pubblici come un'iperestensione delle montagne russe - e brillante nella scelta di proporre qualche rimando a pellicole entrate nell'immaginario collettivo (dalle latenti suggestioni visive del Metropolis langhiano, fino a Singin' in the Rain, Il mago di Oz e via discorrendo), il lavoro di Wedge coinvolge più sul piano estetico che su quello emozionale, riuscendo comunque a divertire grazie all'apporto di trovate intelligenti - come il "travaglio" dei genitori per montare i nascituri - e alla simpatia dei personaggi secondari, in modo particolare Fender, capobanda degli emarginati Rusties. Sulla scia dell'ormai consolidata prassi di utilizzare "voci DOC" per i film d'animazione - e stavolta, nella versione originale, sono quelle di Mel Brooks, Ewan McGregor, Halle Berry, Robin Williams e Paul Giamatti - l'Italia regala il suo colpo ad effetto: il protagonista Rodney è doppiato da Dj Francesco. Peccato.