Ci risiamo. Puntuale come una delle tasse dello sceriffo di Nottingham, riecco tornare sul grande schermo Robin Hood. Tra i personaggi “leggendari” più sfruttati (e quasi sempre male) dal grande schermo, l’arciere di Sherwood finisce stavolta nelle mani di Otto Bathurst, regista inglese televisivo a cui si deve il primo, notevole episodio dell’ormai serie cult Black Mirror (The National Anthem) e la direzione di qualche episodio dell’altrettanto celebrata Peaky Blinders.

Al ritorno dalle Crociate, Robin di Loxley (Taron Egerton) scopre che l’intera contea di Nottingham è dominata dalla corruzione. L’ingiustizia e la povertà in cui vive il suo popolo lo spingono così a tramare per organizzare un’audace rivolta contro la potente Corona d’Inghilterra. Ma per farlo ha bisogno di un mentore: un abile quanto sprezzante comandante arabo conosciuto durante la guerra (Jamie Foxx). Grazie a lui, il temerario Robin diventerà il leggendario Robin Hood e, forse, cercherà anche di riconquistare un amore che credeva perduto.

Partendo dalla volontà – come già avvenuto recentemente anche nel Robin Hood del 2010 di Ridley Scott – di rintracciare “l’origine della leggenda”, il film di Bathurst (prodotto da Leonardo Di Caprio…) è un action che riesce a farsi dimenticare neanche mezzo minuto dopo la visione.

Sicuramente più atletico dei suoi celebri predecessori (da Douglas Fairbanks a Erroll Flynn, da Kevin Costner a Russell Crowe), il Robin Hood incarnato dal ventinovenne Egerton è talmente trasparente da non lasciare nessun segno tangibile del suo passaggio (cinematografico).

Trasparenza che il carrozzone messo in piedi da Bathurst & Co. fa molto poco per riempire di colori e/o sfumature. 116’ di film, circa 115’ sovraccarichi di fanfare, battaglie ed esplosioni: se il modello di riferimento era quello della rilettura à la Guy Ritchie style (e questo già potrebbe dare la misura di quanto si volesse volare alti…) basta molto poco per rendersene conto e, al tempo stesso, per rimanere sin da subito estranei rispetto a quello che avviene sullo schermo.

È questa ormai terrificante moda di dover a tutti i costi modernizzare tanto a livello estetico quanto nei sottotesti le gesta di figure appartenenti al mito che vanifica già dopo sei minuti operazioni di questo tipo: per carità, è vero, sarebbe troppo banale credere al fatto che Robin Hood sia diventato leggenda “semplicemente” perché “rubava ai ricchi per dare ai poveri”, ma anche il doversi sorbire alcune esagerazioni “creative” francamente oltre il limite del grottesco ha davvero stancato.

Su tutte, l’arabo Yahya (Jamie Foxx), che ovviamente parla inglese in modo fluente (cosa comune nel periodo delle Crociate…), che diventa Little John; Robin Hood che grazie ai suoi rapidi insegnamenti diventa un Bruce Lee arciere; Robin Hood che in realtà è un lord illuminato, oltre che stratega doppiogiochista in grado di insinuarsi – benvoluto – tra le maglie dei loschi traffici Stato/Chiesa; Lady Marian (Eve Hewson) una Mata Hari sempre in prima linea per gli interessi dei popolani (praticamente era più credibile il fatto che – volpe – fosse nipote di un leone, come nella versione Disney del ’73).

Neanche il solitamente ottimo Ben Mendelsohn – qui chiamato ad interpretare l’odioso sceriffo, senza un minimo di sfaccettatura – riesce a sollevare le sorti di un adattamento così fracassone e inutile.

Ma attenzione, potrebbe non essere finita qui. E dopo l'origine qualcuno avrà la bella idea di portarci “finalmente” nella foresta di Sherwood…