Sul terreno di gioco l’astro nascente britannico era David Beckham. In campo musicale, invece, l’Inghilterra salutò la nascita di una boy band che, volenti o nolenti, ha fatto storia: i Take That.

Dopo la docuserie dedicata al campione del Manchester United, Netflix compie un’operazione pressappoco analoga con Robbie Williams, che nei primissimi anni ’90 era il membro più giovane dei Take That (aveva 16 anni) e solamente qualche anno più tardi diventò – da solista – la pop star più celebre del Regno Unito (e non solo).

Diretta da Joe Pearlman (che sempre per Netflix ha realizzato il doc su Lewis Capaldi, How I'm Feeling Now) e prodotta da Asif Kapadia (uno che di celebrities tormentate se ne intende, dopo aver diretto i film documentari su Maradona e Amy Winehouse, quest’ultimo premiato con l’Oscar), il format in 4 puntate “cattura” l’intimità del Robbie Williams attuale, quasi 50enne, colto nella sua lussuosa villa di Los Angeles: canottiera e boxer neri, sempre (o quasi) sul letto della stanza matrimoniale, il cantante si presta a compiere un viaggio a ritroso, mostrando al pubblico e a se stesso (attraverso un laptop) un’enorme quantità di filmati dietro le quinte che nessuno ha mai visto, a volte neanche lui.

Robbie Williams, courtesy of Netflix
Robbie Williams, courtesy of Netflix

Robbie Williams, courtesy of Netflix

Seguendo un percorso cronologico, si parte naturalmente dagli esordi, da quell’annuncio pubblicitario letto dalla mamma in cui si cercavano nuovi elementi per una boy band, poi la successiva, rapida esplosione del fenomeno, le frizioni con Gary Barlow, la rottura (nel ’95) e il conseguente tentativo di intraprendere il percorso da solista, non rose e fiori all’inizio ma grazie ad Angels (singolo che raggiunse i 2 milioni di copie vendute) e al sodalizio con il produttore Guy Chambers iniziò a scalare le classifiche, per non lasciarle mai più.

Fino a qui tutto bene, sei album in studio (più il live a Knebworth) e megaconcerti in giro per il mondo contrappuntano il decennio seguente e lo schema è quello abituale: successo planetario, eccessi di pari passo. Poi il blackout.

Ecco, da questo momento in poi l’operazione incomincia ad assumere i connotati di un’autoterapia a tratti angosciante: Williams blocca più volte la visione di quei materiali appartenenti ad un passato che sentiva di aver sconfitto, superato, curato. E invece è un processo, scopriamo insieme a lui, con cui continua a fare i conti: nel 2006 durante un concerto a Leeds in due serate l’attacco di panico, la scelta di tornare sul palco per evitare guai finanziari che sarebbero stati irreparabili, “ma fu come un incidente d’auto”, dopodiché la fase più dolorosa della sua esistenza, la tossicodipendenza da farmaci (anfetamine, ossicodone, Vicodin, chi più ne ha più ne metta) e cocaina per combattere un altro demone, quasi paradossale: un uomo “nato per intrattenere le folle” che teme il palcoscenico, l’esibizione, la folla. E che soffre in maniera lacerante il continuo ostracismo della stampa nei suoi confronti, culminante con l’uscita del suo singolo più sperimentale, Rudebox , definita dal Sun “la peggior canzone di sempre”.

Robbie Williams, courtesy of Netflix
Robbie Williams, courtesy of Netflix

Robbie Williams, courtesy of Netflix

Quando in scena entra Ayda Field (a proposito di angels…), la donna che nel 2006 conobbe, all’epoca attrice di soap e sitcom USA, oggi sua moglie e madre dei suoi 4 figli, iniziamo a capire che quell’uomo, un tempo ragazzino così rapidamente divenuto star, si è ritrovato a dover lottare contro se stesso per ritrovare il centro di un’esistenza talmente accecata dai riflettori e per questo destinata irrimediabilmente al buio di un pozzo senza fine: il rehab a 33 anni, l’esilio volontario dalla ribalta per un triennio buono, riscoprendo però così il gusto per viaggi e conoscenze altrimenti impensabili, il timido ritorno sulle scene e (incredibile come certi cerchi definiscano poi il destino di alcuni…) la reunion con i Take That, nel 2010, dopo aver sepolto un’ascia di guerra brandita per 15 anni.

Solamente così, insieme a quei 4 ragazzi ormai diventati adulti come lui, Rob/Robbie è riuscito a prendere nuovamente confidenza con la fama, con l’esibizione: “nascosto” nel gruppo eppur visibile.

Robbie Williams, courtesy of Netflix
Robbie Williams, courtesy of Netflix

Robbie Williams, courtesy of Netflix

L’aspetto veramente interessante della docuserie è proprio questo, in fondo, non una semplice agiografia della pop star, e infatti a venir meno è un discorso approfondito sull’intera produzione musicale del protagonista, piuttosto la volontà di mettere/mettersi a nudo affrontando insieme allo spettatore il periodo più buio della sua esistenza: proprio come ricorda lo stesso Williams rivolgendosi ai milioni di fan che hanno popolato i suoi live, “è un percorso che abbiamo fatto insieme”, ecco che allora sembra quasi che la popstar abbia bisogno di compagnia per specchiarsi nuovamente in quell’immagine di sé da cui aveva deciso di fuggire.

Robbie Williams, courtesy of Netflix
Robbie Williams, courtesy of Netflix

Robbie Williams, courtesy of Netflix

Perché – e questo è un altro argomento di non poco conto – spesso non consideriamo mai abbastanza quali possano essere le ripercussioni psicologiche che investono chi gode di una fama inimmaginabile in giovanissima età, quale sia il prezzo da pagare per ottenerla, soprattutto come fare a crescere, diventare adulti, costruirsi una propria sfera di intimità e affetti (reali) da custodire al di qua del palcoscenico. E da questo punto di vista Robbie Williams squarcia un velo a tratti inquietante: essere Rob o Robbie, passare da uno all’altro, non è così semplice e automatico come si possa pensare. La fama, i riconoscimenti, i dischi di platino, i concerti sempre sold-out, le folle oceaniche adoranti, poi basta fermarsi a ragionare su un tir, un’attrezzatura, un bullone che sono proprio lì, in quel momento, a “causa tua”, e il cortocircuito è servito.

Uscirne non è semplice, il loop diventa micidiale, kafkiano, le droghe, i farmaci “prescritti” sembrano aiutare ma in realtà ti affossano, l’inaspettata anima gemella è lì per te, proprio nel momento giusto, ma in realtà è il momento giusto per interrompere il circuito. E riprendere il cammino da un’altra prospettiva: Let Me Entertain You…