Non bastasse il motivo che spinge il francese Jay a restare in una terra straniera, a commuovere in Ritrovarsi a Tokyo sono le modalità con cui resiste in una patria che non gli appartiene. Come fosse bloccato in un limbo, Jay ha imparato il giapponese, preso confidenza con i quartieri della metropoli, trovato un lavoro che non sta a noi definire simbolico. Fa il tassista, appunto, perché, a forza di guidare, girare, scoprire nuovi posti, spera di ritrovare Lily, la figlia ormai adolescente che non vede da nove anni, da quando si è lasciato in malo modo con una donna giapponese.

La legge non prevede l’affido congiunto e “tende” a favorire il genitore locale: l’altro, generalmente immigrato, non può vedere il figlio ma deve comunque occuparsi del mantenimento e sperare, una volta compiuta la maggiore età, che quel figlio abbia voglia di riallacciare un rapporto con una persona che non l’ha visto crescere. La situazione è così disgraziata che il protagonista si fa quasi convincere dal padre a tornare in Francia per avviare un’attività: ovviamente il destino ci mette il suo e, con la complicità di un collega, Jay riconosce sua figlia mentre sale sul taxi, senza che lei lo sappia chi sia quell’uomo alla guida.

È proprio nella costruzione del personaggio che Guillaume Senez (anche sceneggiatore con Jean Denizot) riesce a gestire una materia incandescente, evitando le trappole del ricatto emotivo e le scene madri che invitano al pietismo. È struggente osservare la metodica determinazione con cui Jay combatte il senso di spaesamento in una città troppo grande e dalla vocazione malinconica (il collega che fugge dalla routine rifugiandosi nella pesca fine a se stessa, gli abusi di alcolici nelle ore notturne, il mare che bagna i ricordi) e cerca di fare i conti con l’ostilità di un luogo – e di un sistema – che gli ha tolto tutto e dove è costretto a galleggiare per immaginare la possibilità di un futuro nonostante tutto.

Romain Duris in Ritrovarsi a Tokyo
Romain Duris in Ritrovarsi a Tokyo

Romain Duris in Ritrovarsi a Tokyo

(Les Films Pelleas / Versus Production)

Il magnifico Romain Duris, sempre sorprendente, incarna alla perfezione il titolo originale, la parte mancante, e anche quello della precedente collaborazione con Senez, le nostre battaglie: un fascio di nervi che lavora di sottrazione (mai una smorfia, mai un ammiccamento, mai un tremore fuori posto), un corpo che si porta addosso i segni di una tragedia privata (il tatuaggio in omaggio alla figlia perduta, il fisico emaciato, il sorriso triste).

E Senez si conferma davvero un autore ammirevole, un limpido e pudico umanista che lavora sui gesti eludendone la retorica e sull’imprevedibile linearità del quotidiano, capace di posizionare un tema dentro una storia senza farla prigioniera, informandoci con precisione su un dramma che la narrazione giapponese tiene nascosto sotto la coltre dello spirito zen (c’è un’altra madre francese in lotta che si lamenta proprio di questo, dando conto della distanza culturale con un occidente non attrezzato a confrontarsi con un altro modello socioculturale). E ci restituisce un film straziante, che nella parte finale trova una luce di accecante bellezza, rivelando infine la via a una felicità che sfugge agli sguardi della gente.