Pierre Bonnard e Marthe de Meligny. Il pittore e la musa (l’amata avrebbe ispirato più di un terzo delle circa tremila tele partorite dall’artista). L’estasi dell’innamoramento, la libertà e poi le asprezze di una convivenza che segna l’arte e l’esistenza. Un legame comunque indistruttibile, che resiste a tradimenti, sviamenti, malattie, inaridimenti e fughe.

Provost accantona le tele del celebre esponente impressionista francese attivo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, elide l’unicità e le innovazioni nel suo contesto artistico dell’epoca, e mette a fuoco, ammirato, un’odi et amo capace di resistere a scossoni e passi falsi.

Ritratto di un amore, o della dirompente incandescenza di un sentimento vulcanico e incontrollabile che chiede di eclissarsi dalla società parigina (il covo d’amore che i due scelgono in Costa Azzurra) per sublimarsi in pittura, prima di misurarsi con gli spettri della malattia (l’asma che affligge Marthe) e della morte.

Un film, dunque, consegnato all’istrionismo recitativo dei protagonisti, che non deforma la biografia, ma ci consegna le conseguenze di una società in cui le donne – Marthe entra in scena come modella del pittore –sono socialmente definite senza scampo da uno sguardo maschile. 

Nulla da stupirsi, però. L’inclinazione di genere è canonica nei film di Provost: all’ottava fatica il regista continua a parteggiare per loro, le accarezza e le compatisce di fronte all’incostanza, perfino all’immaturità degli uomini. Ma lo struggente pas de deux di Pierre e Marthe, se é femminista nell’indole e nelle intenzioni, si istalla subito su slanci, capricci, titubanze e (in)certezze sentimentali di Bonnard.

Nella solida scansione cronologica del biopic (sceneggiatore è lo stesso regista), cova, allora, lo sguardo insieme ammirato e giudicante verso il pittore, mentre dal biografismo si declina verso il melò e la recitazione naturalista del cast (notevole la prova di un’isterica e struggente Cécile De France) si spinge verso punte iperrealiste. La torsione di genere di Provost, dunque, perde efficacia di fronte alle discriminazioni della Storia e consente al regista solo di rovistare nel privato di un’artista geniale e amorale, fedele e infedele, passionale e anaffettivo. 

Anche così s’intuisce perché la densa, doppia biografia a lungo andare si appesantisca, scolpendo personaggi monolitici, impalpabili oltre la dimensione affettiva. Il sentimentalismo abbonda e soverchia psiche, passioni ed estro di Bonnard, Monet e compagni, che, nella solidarietà artistica, finiscono così per confondersi e sovrapporsi.  

Già applaudito a Cannes 2023, Ritratto di un amore si preoccupa solo di elevare a potenza l’assolutezza dei sentimenti. Ed è un peccato soprattutto perché, detto della convincente De France, la recitazione dirompente di Vincent Macaigne è raffreddata, sin dall’incipit, anche da un certo controllo formale di regia, dalla schematica riproposizione di più piani visivi immersi nella limpida, verdeggiante fotografia naturale di Guillaume Schiffman. Fino ad un finale onirico e simbolico che, va ammesso, è puro cinema.