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Ripley
Thomas Ripley, truffatore da quattro soldi, viene rintracciato da un detective privato per conto del facoltoso Herbert Greenleaf, che intende servirsi di lui per riportare a New York lo sfaccendato rampollo Richard “Dickie”, da tempo in Italia in quel di Atrani (Salerno) assieme alla fidanzata Marge. Tom in realtà non è il caro amico del figlio che Herbert crede: lo ha incontrato una sola volta a una festa e lo conosce a malapena. Ma l’occasione è unica: volare in Italia, diventare il miglior amico di Dickie, prendere il suo posto e impossessarsi dei suoi beni.
Ormai Thomas Ripley, l’inquietante personaggio nato dalla fantasia di Patricia Highsmith nel 1955 e protagonista di ben cinque romanzi della scrittrice americana, può essere considerato a ragione uno degli ultimi archetipi letterari dell’era moderna. Dalla prima trasposizione su grande schermo, lo splendido Plein Soleil di René Clement con Alain Delon, passando per i film di Minghella e Cavani, gli adattamenti delle sue gesta criminali tra piccolo e grande schermo sono ormai numerosissime. Ormai lo spettatore si approccia alla visione in maniera filologica, come potrebbe farlo chi va a teatro a vedere l’Amleto: ovvero, non (solo) per la storia, ma per come viene messa in scena. Centrale nella discussione, dunque, diviene il punto di vista dell’adattatore, la sua fedeltà al testo originale di Highsmith, le libertà che ha voluto prendersi. La premessa è necessaria per capire un punto fondamentale: non troverete unanimi consensi per questa mastodontica operazione del regista e sceneggiatore Steven Zaillian (Oscar per Schindler’s List nel 1993: non esattamente l’ultimo arrivato).
Il Matt Damon di Minghella è ancora troppo presente nei cuori dei quasi boomer, e anche il luciferino John Malkovich di Liliana Cavani ha i suoi estimatori. Probabilmente il bianco e nero e il ritmo estremamente calmo spiazzeranno molti telespettatori che, reduci da afose e faticose giornate di lavoro, tenderanno ad abbioccarsi sul divano dopo aver invano sperato che un thriller avrebbe potuto tenerli svegli. Eppure, non ce ne vogliano i detrattori, criticare questa serie Netflix per la lentezza significa avere compreso ben poco dell’intera operazione (che poi non debba per forza piacere, è altro discorso).
Il Tempo, nelle sue varie sfaccettature, è il vero protagonista del Ripley di Zaillian. Il 1960 scandito dalla didascalia è il sigillo di un’epoca mitologica, un’Italia ignota agli esseri umani del 2024, senza traffico, senza auto, una natura primordiale appena intaccata dalla sparuta presenza umana (formidabile la fotografia in esterni di Robert Elswit). Un Eden la cui placidità viene intaccata da una scura goccia di male, quella di Tom Ripley, che di questo mondo non è figlio e non gli appartiene. Il solo radicamento di Tom in un mondo altro sembra deformare l’ambiente, renderlo una scenografia espressionista e livida, o una fantasia malata di Escher. La sua lotta per prendere il posto di Dickie Greenleaf è anche il tentativo di fondersi in un mondo che dal primo istante rigetta la sua presenza: si pensi agli sguardi sospettosi della servitù ad Atrani, degli uomini di banca, dei receptionist. È addirittura la Natura stessa a ribellarsi contro il germe infetto del Male incarnato da Tom, quando quest’ultimo cade di barca a Sanremo subito dopo aver consumato il suo delitto, rischiando la vita a sua volta.
La ieratica lentezza del narrato è ancora più eloquente nello svelare le intenzioni di Zaillian: il Tempo, oltre a essere protagonista, è complice di Tom Ripley. Assuefatti da CSI in poi a indagini ultrasofisticate supportate dalla più raffinata tecnologia anticrimine, l’incredibile raggiro di Tom Ripley avrebbe avuto vita molto difficile ai giorni nostri. Ma il 1960 di Steven Zaillian gli permette di farla franca: la lentezza è quella di un quotidiano altro dal nostro, fatta di telefoni, lettere, telegrammi, lunghissimi viaggi in treno per convocare testimoni da interrogare, indagini giocoforza lentissime, impossibilità di confutare sul momento dichiarazioni o versioni dei fatti. Time Is On My Side, potrebbe cantare Tom Ripley sulle note dei Rolling Stones, non fosse un fan di Mina e de Il cielo in una stanza.
Il Tempo, infine, quello dei secondi interminabili, del nulla che accade, è quello che ci aiuta a vedere da vicino e a dissacrare ogni possibile fascinazione del Male. A Ripley non verrà in soccorso alcuna ellissi, per occultare un cadavere ucciso a sangue freddo nel salotto di casa sua; dovrà aspettare ore e ore davanti a esso, in attesa della notte, per dirigersi nottetempo sull’Appia Antica a Roma, e noi con lui. Farsi carico di questa criminosa via Crucis, dove un solo errore può allungare infinitamente i tempi, è il delizioso supplizio attraverso il quale passa la partecipazione emotiva dello spettatore, chiamato suo malgrado a condividere la frustrazione e il disagio.
Andrew Scott è formidabile, e l’omosessualità latente del suo personaggio è la stessa presente nel romanzo di Highsmith. Anche Johnny Flynn e Dakota Fanning sanno cavarsela egregiamente, e al pari di Scott parlano un ottimo italiano, il che non era affatto scontato. Il cast italiano, diretto da un regista straniero, è sempre un pizzico sopra le righe: Margherita Buy, forse, non è del tutto in parte, o forse recita sempre la stessa da anni e questa volta occorreva altro. A uscirne sempre bene è l’ispettore interpretato da Maurizio Lombardi, davvero convincente. Il tutto supportato da un comparto tecnico di prim’ordine, dalle scenografie ai costumi passando per le musiche di Jeff Russo.
Un plauso a Steven Zaillian, che in tempi di serie mordi-fuggi-usa-getta, si prende il tempo necessario per una riflessione di ampio respiro, e allo stesso tempo ci offre un intrattenimento di qualità cinematografica. Per chi non apprezzerà: i gusti sono gusti. E sul divano di casa, si può sempre dormire al riparo da occhi indiscreti.