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Rien à perdre di Delphine Deloget
Sylvie (Virginie Efira) lavora di notte, al bancone di un locale. Mamma single, tira avanti senza troppi patemi. Fino a che la polizia non irrompe nel locale e la porta con urgenza in ospedale: Sofiane, il secondogenito di 8 anni, si è ferito in un incidente domestico mentre il fratello più grande, Jean-Jacques, non era in casa.
Qualche giorno dopo i servizi sociali le porteranno via il bambino. E per Sylvie inizia la lunga, inesorabile battaglia con la macchina amministrativa e giudiziaria.
Delphine Deloget fa il suo esordio al lungometraggio con Rien à perdre, ospitato in Un Certain Regard a Cannes 76: neanche a dirlo il motore arrembante dell’opera è incarnato dalla diva Efira, qui impegnata in un ruolo solamente in apparenza di semplice restituzione. Sì perché la sua Sylvie è madre amorevole e premurosa ma anche donna non necessariamente perfetta, a volte dalle reazioni esagerate (momento cult la testata sul naso alla donna dei servizi sociali) e dalla vita non propriamente “ordinata”.
La forza del film è proprio questa, in fondo: siamo naturalmente chiamati a parteggiare per lei, per la risoluzione più logica della faccenda, che però deve fare i conti con ragionamenti che spesso si basano su decisioni prese da istituzioni seguendo il filo di calcoli che non necessariamente debbono combaciare con quel senso di giustizia che appartiene all’amore, e al sentimento, e al tempo stesso ci accorgiamo che Sylvie e tutte le persone che le gravitano intorno (gli amici, i fratelli, lo stesso Jean-Jacques e, più che mai, il problematico Sofiane), chi per un verso, chi per l’altro, sono totalmente imperfetti.
Come lo è il film, sia chiaro, che soffre alcune situazioni di troppo e altre un po’ sopra le righe, ma tutto sommato riesce a trovare una buona sintesi tra il dramma di una madre e l’ironia genuina di momenti inseriti al tempo giusto per non caricare in maniera troppo ricattatoria l’intero impianto.
Con un finale tanto inverosimile quanto però liberatorio.