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Un re zoppo, Riccardo Mancini (Massimo Ranieri), che riemerge dall’ospedale psichiatrico giudiziario per riprendersi la corona e sprofondare all’inferno; la famiglia che governa tra spaccio e malaffare il regno di Tiburtino III dall’avito castello; una regina madre (Sonia Bergamasco) monca di indice e aguzza di ingegno criminale; i freaks che tutto ascoltano e tutto riportano al re; gli zingari (Ivan Franek) che sono risorsa e pericolo; la lotta intestina e fratricida, già metro di tutte le cose.
E’ una rivisitazione pop-musicale-psichedelica-muccassassina dello scespiriano Riccardo III il Riccardo va all’inferno di Roberta Torre, in cartellone al 35° Torino Film Festival.
Tutto è sovraesposto, superfetato, isterizzato, la favola deforma la realtà e viceversa, il musical ruba al dramma ricambiato, Shakespeare trova il mondo di mezzo, la sospensione l’incredulità, eppure, più di qualcosa non va. Perché non c’è solo il mondo di mezzo di mafia capitale, o quel che è, ma anche e soprattutto una terra di mezzo che diviene terra di nessuno: le intenzioni della Torre non si discutono, ma gli esiti sono assai discutibili.
Sarebbe servito più coraggio, più crudezza, più sporcizia, per contaminare un racconto, e una sostanza, che pare accademico, epidermico, mai scomodo, volitivo e cattivo: Ranieri è volto, alla prima apparizione, iconico e sorprendente, ma non va oltre, non recita, non agisce. Analogamente, il film ha la misura del videoclip, allorché Ranieri appunto appare e su musiche di Mauro Pagani incarna claudicante l’inverno del nostro scontento: non c'è reale evoluzione.
Anche i costumi, di Massimo Cantini Parrini e il decor tutto avrebbero beneficiato di una poetica, e una drammaturgia (il progetto viene dal teatro), più sfidante, più interrogante e meno circense: manca un po’ di ardimento, un tot di peso perché questo Riccardo possa farsi prendere sul serio, possa farsi intendere per il feroce incantamento che avrebbe voluto essere.
Peccato. Ma si sa il barocco è una forma del contenuto, e qui no: superficiale.