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Rheingold © 2022 Bombero/Warner Bros./Gordon Timpen
Il titolo originale potrebbe evocare avventure dal sapore antico: Rheingold, che in tedesco significa “l’oro del Reno”. Sembra di tornare a Il tesoro della Sierra Madre di John Huston, con Bogart. Ma qui l’epopea è decisamente più moderna. Rheingold del teutonico Fatih Akin racconta la storia del rapper Giwar Hajabi: un’infanzia turbolenta, il trasferimento in Germania, la criminalità, una rapina a tanti zeri. E la nascita di una passione, la musica. Il film segue la classica parabola che porta dall’inferno alla redenzione, con un racconto fiume, di 140 minuti, che sfiora più Paesi e si propone come un’epopea di gangster.
Akin trova la vicenda che più si avvicina alla sua cifra stilistica. Si destreggia tra l’hip hop e la malavita, le risse e le canzoni. Il protagonista è il classico principe dannato, che flirta col pericolo ed è sempre vicino al disastro. Il regista descrive i suoi criminali con ironia, come se fossero personaggi dei fumetti. Utilizza toni leggeri, punta sul ritmo, sui brani, con una durata da grande produzione. Evita i dilemmi etici, si concentra sull’intrattenimento, con uno sguardo anche all’integrazione. Lavora sul ricordo, sulla memoria, calcando la mano quando deve tratteggiare i suoi antieroi.
Ma comunque, si sa, Akin nel suo cinema non vuole mezze misure. Non a caso la prima immagine che sorge nella mente di Giwar è quella di un carcere, delle sbarre. L’elemento da scardinare è la convenzione, identificata con le sbarre. Bisogna superare i propri limiti, che coincidono con le regole imposte e le barriere che invece ci si pone in prima persona. La “morale”: anche in prigione si può registrare un disco.
Akin non raggiunge i livelli dei suoi Ai confini del paradiso e Soul Kitchen, ma è decisamente più ispirato rispetto ai meno riusciti Oltre la notte e Il mostro di St. Pauli. Ama soffermarsi su uomini fuori dal comune, spesso più vicini al lato oscuro della società. Il fuorilegge è un cardine dei suoi progetti, fin dalla sua opera prima.
In Kurz und schmerzlos i protagonisti erano già tre ex-galeotti in crisi di coscienza. Le origini turche, il sentimento e il sangue sono gli elementi che caratterizzano la maggior parte dei suoi film.
In Rheingold, Akin inserisce anche il gusto per la magia, la favola. Dove sarà il malloppo? Dov’è situato “l’oro del Reno”? Non saremo noi a svelarlo. E forse anche il cineasta vuole che resti un mistero, per mescolare il concreto con l’illusione, le sirene con le pistole. Quella di Giwar è la cronaca di una cultura sempre in guerra, che rischia di essere spazzata via. Lui è curdo, rifiutato in patria e non sempre benvoluto in Germania.
In qualche modo il suo personaggio si specchia nel cuoco sull’orlo di una crisi di nervi proprio di Soul Kitchen: entrambi lontani da casa, bersagliati dalle circostanze, artefici delle loro sfortune e momenti migliori. Quello di Akin è un universo in cui si fatica a mantenere un’armonia, dove le ferite di un popolo si specchiano nei dolori del singolo. Ma qualche volta, alla fine, dopo la tempesta si può vedere l’arcobaleno.