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Renfield © 2023 Universal Studios. All Rights Reserved.
C’è evidentemente una lunga tradizione alle spalle di Renfield, divertente commedia horror che scontorna dal classico di provenienza un personaggio leggendario (Dracula di Bram Stoker), cita le luci e il décor dei suoi adattamenti cinematografici con Bela Lugosi, recupera un registro comico se non parodico in cui si incrociano le visioni di Andy Warhol (Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!!) e il tono di John Landis (Un lupo mannaro americano a Londra), attualizza il testo di partenza mettendo al centro temi legati alla sensibilità contemporanea (le relazioni tossiche in primis).
Ma, come si evince dal titolo, il film non si concentra sul vampiro più celebre ma sul suo fedele famiglio, il servo Renfield che, dopo secoli al servizio del conte, sta attraversando una crisi esistenziale: non è più disposto a procurare vittime per l’insaziabile capo (devono essere giovani e innocenti, non importa se maschi o femmine: Dracula non fa distinzioni di genere) e, di nascosto, si aggrega a un gruppo di sostegno alla co-dipendenza.
Quando incontra un’onesta e fumantina poliziotta di New Orleans, determinata a far capitolare la più potente famiglia criminale della città guidata, Renfield inizia a immaginare la possibilità di un futuro migliore. Ma non ha fatto i conti con il suo capo.
È una parabola di riscatto e redenzione, quella scritta da Robert Kirkman (autore di The Walking Dead) e Ryan Ridley, che seguendo uno schema sicuro descrive un faticoso percorso di emancipazione, senza sfuggire al pericolo di declinare qualcosa di volutamente bizzarro in modo perfino troppo prevedibile, come se a un certo punto la timidezza avesse preso il sopravvento preferendo l’intrattenimento smaliziato a un’ipotesi più sfaccettata e sfiziosa.
Se il crime finisce per essere una cornice pretestuosa per arrivare a una resa dei conti è perché l’interesse dichiarato risiede nel tema psicologico, con una rappresentazione apparentemente farsesca della coppia che lascia intravedere qualcosa di più intrigante, dagli orrori che provochiamo per assecondare e compiacere i bisogni di chi esercita un potere su di noi al processo di riammissione nel mondo dei vivi che va da sé implica un’accettazione della morte.
Renfield non si incarica completamente della serietà che promette, disperdendosi via via in un giochino gore, un pastiche tra il gotico e il comico che la regia di Chris McKay enfatizza nel rivendicare un’artigianalità più esposta che effettiva.
È chiaro che un Nicolas Cage, perfetto in un ruolo così borderline, spudoratamente gigione nel farsi carico di un trucco che nel suo caso diventa valore aggiunto più che trappola protesica (i denti, le vene, il pallore, le unghie), esalta e cannibalizza un film del genere, in cui peraltro instaura una gustosa relazione tossica col partner dando effettivamente l’idea della sottomissione.
Da par suo, Nicholas Hoult ha il volto e il portamento giusti per dare vita a un personaggio antico e represso, un servo logorato dal senso di colpa che cerca in tutti i modi di reagire al destino. Forse dovrebbe imparare qualcosa da Cage che, vecchia volpe, ha capito benissimo che buttarla in caciare era il modo migliore per uscirne in un film che è in tutto e per tutto un “potrei ma non voglio”.