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© 2024 Netflix, Inc.
Sono passati sei anni da Hold the Dark, ultimo avvistamento di Jeremy Saulnier prima di Rebel Ridge, quinto lungometraggio del regista ancora una volta distribuito da Netflix. Lunga e tormentata la gestazione: annunciato nel 2019, posticipato causa Covid, abbandonato dal protagonista John Boyega nel 2021, sospeso in attesa di sostituito, ripreso con Aaron Pierre nel 2022, in post produzione per quasi due anni, disponibile in streaming dal 6 settembre 2024.
Nonostante gli incidenti, la confezione è più industriale dei primi lavori, ma conferma la provenienza indie di Saulnier: notevole la capacità di costruire la tensione senza ammiccare allo spettacolo più muscolare (la prima parte è straordinaria, poi purtroppo s’infiacchisce un po’), ammirevole l’economia di mezzi che gli permette di non prenderla tanto per le lunghe (l’incipit dirompente è una lezione di thriller), più che preciso lo spaccato di un’America profonda e periferica che non rinuncia al peggio del passato (razzismo, corruzione, violenza).
Rebel Ridge inizia con Terry Richmond (Pierre è clamoroso, un dolente attore shakespeariano in un massiccio corpo da action che porta sulle spalle il peso di buona parte del film), un veterano della guerra in Iraq (i tatuaggi ne raccontano la storia militare e non solo), si sta dirigendo in bicicletta verso una cittadina rurale (è stato girato in diverse città della Louisiana, come New Orleans e Leesville): porta con sé 36.000 dollari, necessari per pagare la cauzione per il cugino Mike Simmons, arrestato per possesso di erba, e comprare un camioncino con l’obiettivo di vivere onestamente.
Ovviamente succede qualcosa: viene speronato da un’auto della polizia e due agenti gli confiscano il denaro, benché legittimo (a quanto pare capita spesso da quelle parti: un tipico abuso di potere compiuto da chi porta e disonora una divisa). Da qui cominciano i guai, per Terry e per la sua famiglia: il nostro si scontra con il capo della polizia locale (Don Johnson in gran spolvero), capisce di essere coinvolto in un complotto, si accorge del controllo esercitato dal dipartimento sulla comunità, fa appello al passato (faceva parte del Programma di arti marziali del Corpo dei Marine, che addestra i militari al combattimento a mani nude, con armi da taglio, armi non convenzionali, fucile e baionetta e si concentra anche sullo sviluppo mentale e personale) e trova un aiuto in un’impiegata del tribunale con precedenti di droga.
Saulnier sa lavorare ai margini della società e coltiva una certa indignazione verso il degrado etico (interessante questa uscita a due mesi dalle elezioni presidenziali, quasi a ricordarci che il trumpismo è solo la variante di un virus mai estirpato), portando quello che sulla carta sembrerebbe un intrattenimento teso e duro verso orizzonti più politici.
Il focus è civile (testimoniare e denunciare gli abusi delle forze dell’ordine), lo sguardo si scopre classico (una specie di incrocio tra lo schema hitchcockiano dell’“uomo sbagliato al posto sbagliato”, la paranoia della New Hollywood, l’evocazione di Rambo), l’eroe è tridimensionale (un veterano che della guerra è vittima collaterale eppure tormentata quanto intraprendente e virile, da cui si capisce la preoccupazione che desta nei poliziotti, corrotti sì ma meno abili e lucidi), l’esito è meno prevedibile del previsto (c’è dell’umorismo nero a sottolineare la stupidità dei “cattivi” ma il senso di oppressione è palpabile).
Peccato per la seconda parte meno incalzante ma almeno uno scambio di battute da antologia (“Non sapevo che fosse una gara a chi ce l’ha più grosso” provoca Terry; “E quando non lo è?” sentenzia il capo della polizia).