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Rebel Moon - Parte 1: figlia del fuoco
Un universo di popoli pacifici abitano ognuno una propria luna, ma l’armonia delle differenze è rotta, d’improvviso, da devastazioni e guerre di conquista di un esercito predatorio (il Mondo Madre). A finire sotto le mire di conquista c’è, in particolare, una remota e rurale landa, abitata in concordia da un popolo agricoltori.
Kora (Sofia Boutella) l’eroina straniera accolta in questo regno, prima stermina l’esercito invasore causa tentato stupro di una ragazza, infine guida della rivolta contro le forze del Male. Parte il viaggio spalla a spalla con un contadino reiventatosi guerriero nell’immensità delle galassie, per reclutare un esercito di epurati di lusso che affilino le armi contro un’Impero dai tratti nazisti.
Tanto basta per dare la cifra della nuova (e vecchissima) via Netflix al kolossal capitanata da Zack Snyder, l’ex cantore del multiverso DC Comics, qui più che mai in versione cantore di sé stesso.
Perché, al di là delle Guerre Stellari in cui il regista aveva pensato di trasbordare la sua banda di reietti, la galassia è comunque rispolverata e riciclata (sì, siamo nello stesso cosmo del precedente Army of the Dead) per una saga progettata per espandersi tanto in senso intermediale (fumetto, corti animati e graphic novel) quanto seriale; il secondo capitolo (Rebel Moon – La sfregiatrice) girato in coppia con la prima parte, transiterà su piattaforma il 19 aprile 2024, con l’ambizione di dilatare la storia per un altro terzo atto.
Scelta abbastanza singolare, diciamolo, soprattutto sproporzionata rispetto alla resa: un primo episodio monco, che sacrifica la complessità sull’altare dei fasti visivi da CGI, non giustificando la congenita interdipendenza di questo incipit col proseguo.
Insomma, più che un film in due macro atti, Rebel Moon è un unico film spaccato in due parti.
Attesissimo, ma accolto con mugugni dalla critica statunitense, delude per la smania di aggregare a più non posso personaggi, immaginari, riferimenti, linguaggi e temi, senza amalgamarli e ammantarli di una veste estetico-narrativa nuova, o per lo meno, innovativa.
Detto del solito, sontuoso impianto visivo (effetti speciali supervisionati da Michael Gaspar e Bryan Liston), Snyder si preoccupa solo di giocare con gli immaginari, maneggiandoli come un involucro dentro il qual ammassare l’afflato egualitario con un’intonazione anti-imperialista raccogliticcia; la solidarietà e l’inclinazione femminista con un’immaginario cine-fumettistico di risulta (se si parla di combattenti alla riscossa contro un potere predatorio nell’universo serve rammentarlo?).
Il criterio, insomma, è ammucchiare e temporeggiare. Ammucchiare personaggi: tra gli altri, la protagonista guerriera che vuole vendicare la famiglia sterminata; il contadino pacifico costretto ad armarsi; l’ex schiavo domatore di ippogrifi; l’ex generale in rovina ora pronto a combattere; l’amazzone che si libera dalle catene e si unisce al manipolo.
A tutti è concessa una possibilità di riscatto armato, perfino al malvagio Atticus, in continuo bilico tra la vita e la morte. Ma tutti sono solo compatiti, non conosciuti, nei loro tratti spinti verso il cliché da una sceneggiatura scarnificata e corriva (firmata dallo stesso Snyder a sei mani con Shay Hatten e Kurt Johnstad).
Così, nell’ammucchiata, finiscono anche generi e toni tipici di Snyder e di sicura presa sul pubblico generalista: ecco allora il dramma familiare in flashback che si fa fantascienza che si fa action, che si fa revenge movie al femminile, che si fa film storico, poi film epico, poi film dimezzato in attesa della classica lotta risolutiva tra Bene e Male.
Sui titoli di coda la domanda sovviene: la cornucopia sarà, poi, giustificata?