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Rebecca H. (Returns to the Dog)
Lodge H. Kerrigan torna alla regia dopo sei anni e tre film all'attivo (Clean, shaven, 1993 - Claire Dolan, 1998 - Keane, 2004) che gli avevano giustamente dato la fama di cineasta americano realmente indipendente. Uno che per produrre e distribuire le sue pellicole non si era mai affidato ai comparti d'essai delle grandi major, ripiegando soprattutto sui piccoli capitali provenienti dall'Europa. I francesi l'hanno amato, il Torino film festival gli ha dedicato una retrospettiva alcuni anni fa, ma Kerrigan non è mai stato tipo da smancerie. Basta vedere Rebecca H. che non vedremo mai e poi mai in Italia (e probabilmente nemmeno in Usa). Un film che il quotidiano francese "Liberation" ha definito “lupo-mannaro”, tanta e tale l'urgenza di filmare e divorare il proprio soggetto/oggetto di scena. Una stra-or-di-na-ria Géraldine Pailhas, che ricorda vagamente la spigolosità somatica della sfortunata interprete di Claire Dolan, Katrin Cartlidge. Kerrigan supera le convenzioni della rappresentazione cinematografica dal loro interno. Ovvero con Rebecca H. vampirizza l'ossessione dell'essere in scena, succhia ogni linfa vitale ai meccanismi basici del cinema intimista, mostra un compendio raffinato e ragionato del linguaggio cinematografico tout-court comunque alle prese con un basso basso budget. Geraldine interpreta se stessa mentre interpreta un ruolo d'attrice fino a quando entrano in scena i ciak in primo piano, il corpo e la voce di Kerrigan stesso che entra in campo, la stessa scena che viene ripetuta con la macchina da presa rialzata o angolata di qualche centimetro in più o in meno. Così Rebecca H. diventa riflessione sul disordine d'identità. Identità d'attrice, identità del personaggio, identità del regista, identità dello spettatore. Chi è e che cos'è Geraldine? Una sovrapposizione continua con la Grace Slick (altra rassomiglianza somatica) dei Jefferson Airplane che canta in un video tratto da Monterey pop di Pennebaker (1968) o è quella donna ancora sinceramente entusiasta di avere corteggiato Maurice Pialat in un locale per poter diventare una sua attrice (in Garçu, tra l'altro, 1995)? O ancora: è quella donna che vuole fuggire all'interno della trappola del racconto rappresentato, improvvisamente ritratta ravvicinata di nuca, di profilo, di tre quarti all'interno della stazione di Montparnasse o quella sirena che si tuffa dentro uno stagno, poi piscina che a qualcuno ha ricordato la Simone Simon del Bacio della pantera? Tutto rimarrà insoluto, perfino la tragica fine della donna. Proprio perché potrebbe perfino non essere suo quel corpo di cui intravediamo esangui particolari tra le erbacce e per il quale affranto ne subisce la perdita il (presunto) fratello (Pascal Greggory). Producono Sylvie Pialat e Steven Soderbergh. Ce ne fossero di Lodge Kerrigan.