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Il più delle volte, le cose che restano sono quelle inaspettate. Quelle che arrivano in momenti apparentemente “sbagliati”, senza il giusto preavviso. Ammettiamolo: chi sarebbe mai stato in grado, a così breve distanza da un bellissimo film come The Post, di ripresentarsi al mondo con un film altrettanto bello (se non di più), lontanissimo anni luce da quello e così profondamente iconico?
Quel qualcuno è Steven Spielberg. Che nel giro di pochi mesi ci fa compiere un salto temporale mozzafiato – dagli anni ’70 dei Pentagon Papers al 2045 – catapultandoci dentro l’universo teorizzato da Ernest Cline in Ready Player One (ed. DeA Planeta Libri).
Ma è un tuffo nel tuffo, quello che siamo chiamati a compiere, perché dal 2045 – il tempo “reale” – ci ritroviamo immersi in un vortice intriso di cultura pop anni ’80, popolato di figure e rimandi cari alla totalità dell’immaginario di quel periodo, dalla musica ai videogames, dal cinema ai manga.
Nel 2045, insomma, la cupa realtà in cui si trova a vivere l’orfano adolescente Wade Watts (Tye Sheridan) – “fatta di gente che ha dimenticato di lottare per cambiare le cose” – trova sfogo in un universo parallelo, virtuale: è OASIS, luogo dove evade la maggior parte dell’umanità per trascorrere le proprie giornate. Qui puoi essere chiunque, trasformarti in qualsiasi cosa, fare quello che vuoi. E Wade, qui dentro, è Parzival.
È il mondo creato dal visionario James Halliday (Mark Rylance), che prima di morire ha ideato “Il Gioco di Anorak”, nascondendo proprio in OASIS tre chiavi: tre sfide da risolvere a mo’ di caccia al tesoro per arrivare a scovare il fantomatico Easter Egg presente nel gioco e decretare chi, tra tutti gli abitanti di quel complesso universo, sarebbe diventato il degno erede in grado di controllare quel posto e gestirne (nel mondo reale) l’immensa fortuna a livello economico.
Ready Player One: nel futuro distopico ipotizzato da Cline – che ha curato anche la sceneggiatura del film e ha scritto il libro senza scostarsi poi troppo dall’influenza che proprio il cinema di Spielberg ha avuto sulla sua formazione – la nostalgia di un immaginario così radicale diventa l’unica ragione di vita per esistenze svuotate in un reale ingrato.
Spielberg si inserisce in questa crepa, in questo dissidio così violentemente prossimo anche alla quotidianità dei nostri giorni: il film galleggia dunque in questa contrapposizione tra il grigio del reale e il tripudio allucinante di suoni, colori, musiche e personaggi di un virtuale dove, senza soluzione di continuità, sfrecciano la mitica DeLorean di Ritorno al futuro e la moto rosso fiammante di Akira, dove bisogna sfuggire dalle mastodontiche grinfie di Kong o dalla potenza di fuoco di Mechagodzilla, dove si tenta di riassemblare Il Gigante di Ferro e ci si può impadronire del “Cubo di Zemeckis”, un cubo di Rubik in grado di mandare il tempo indietro di qualche secondo.
È ovvio, quasi naturale, che in questo contesto fantasmagorico uno come Spielberg ci si tuffi con lo stesso slancio di zio Paperone nella piscina piena zeppa di monete d’oro: la nuotata è ritemprante e al tempo stesso suggestiva, perché riporta una delle figure cardine di quell’immaginario – il regista stesso – a misurarsi con parte delle sue creazioni.