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Leonardo Maltese in Rapito (credits: Anna Camerlingo)
È un film drammatico e avvincente l’ultimo di Marco Bellocchio, che ha scelto ancora Cannes, dopo Esterno notte e Marx può aspettare, per presentare il nuovo lavoro.
La storia è ben nota a pochi (chi conosce le vicende risorgimentali, chi vive o studia il rapporto tra cattolici ed ebrei, i cultori della storia della Chiesa contemporanea) e al tempo stesso pressoché sconosciuta presso il grande pubblico.
Per questo motivo sul compendio storico - Bellocchio non lo lesina nel film ma rimane incompleto non sempre per i limiti insiti della narrazione cinematografica - è importante dilungarsi.
Non si tratta “solo” (e non è poco, è la reale vicenda di un bimbo e della sua famiglia) di un accadimento di quasi due secoli fa che assurge al vasto pubblico tramite il grande schermo, ma di fatti che a loro tempo animarono il dibattito sui giornali e nelle cancellerie di tutto il mondo, segnando due passaggi decisivi: per la Chiesa cattolica la fine dello Stato pontificio e del potere temporale dei papi; per la nascente nazione italiana la costituzione del Regno d’Italia e la “presa di Roma”.
I fatti
Edgardo Mortara nasce nel ghetto di Bologna il 27 agosto 1851 da Salomone “Momolo” Mortara e Marianna Padovani, di tradizione e religione ebraica. Segretamente e senza consenso dei genitori venne furtivamente battezzato dalla domestica cattolica Anna Morisi che riteneva il piccolo in punto di morte a causa di una malattia che si rivelerà tutt’altro che letale. Quando, anni dopo, si seppe del battesimo la Santa Inquisizione decretò che Edgardo, appartenendo alla fede cattolica, venisse educato come tale, secondo le leggi dello Stato Pontificio.
Il 23 giugno 1858, dopo il rifiuto dei genitori di Edgardo di un compromesso (ne parlano alcune fonti, non c’è accenno nel film), iscriverlo al collegio cattolico di Bologna fino a 17 anni quando avrebbe potuto scegliere quale religione abbracciare, i gendarmi pontifici prelevarono il piccolo (6 anni) dalla famiglia per trasferirlo a Roma, alla Casa dei Catecumeni, insieme ad altri bimbi nella stessa situazione.
Per il clamore suscitato, per la brillantezza e la fede del ragazzino, Pio IX si interessò al caso e ad Edgardo. I genitori, sostenuti dalla comunità ebraica, tentarono in tutti i modi di riavere il figlio: fu loro concesso di fargli visita, ma le reiterate richieste di restituzione vennero respinte.
Il Papa si difese con il “Non Possumus”: la Chiesa non permetteva il battesimo dei figli degli ebrei (cosi come alle famiglie ebraiche era proibito avere collaboratori famigliari cattolici, proprio per evitare proselitismi e situazioni come questa) ma il battesimo ci fu, come venne poi attestato dal tribunale del Regno, e per quanto illecito (senza consenso dei genitori, da ministro non ordinato e non in caso di pericolo di morte) era da ritenersi valido ed era quindi dovere della Chiesa (magari in altre modalità…) garantirgli l’educazione cattolica.
Il “caso Mortara” fece scalpore in tutta la Penisola, in Europa e in America, offrendo ai moti risorgimentali ulteriori motivazioni per combattere lo Stato Pontificio e permettere l’avvento del Regno d’Italia sotto i Savoia. Edgardo nei ripetuti incontri con le delegazioni ebraiche mostrò di aver scelto consapevolmente il credo cattolico, a tal punto da entrare nel noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi divenendo prete a 23 anni, chiedendo di allontanarsi da Roma per sfuggire alle pressioni familiari che intendevano farlo desistere dalla vita consacrata.
Si riavvicinò poi alla madre e ai fratelli proponendo loro senza esito la conversione al cattolicesimo. Don Edgardo (che aggiunse al proprio nome anche quello di Pio, in onore del Papa che riconosceva come padre) maturò un’ottima cultura. Capace di parlare una decina di lingue, visse il suo ministero a Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia e negli Stati Uniti stabilendosi poi in un monastero a Liegi, dove morì l’11 marzo 1940.
Evidente che si tratti di una storia potente da raccontare ma alquanto delicata, per le sensibilissime corde che si vanno a toccare. Lo sa bene Steven Spielberg che da un decennio ha in animo di dare vita al suo progetto The Kidnapping of Edgardo Mortara.
Il cast
Bellocchio per affrontare una vicenda così complessa, abilmente narrata con il passo dell’interno familiare, si è circondato di una squadra di livello. Scritta insieme a Susanna Nicchiarelli (chiara la sua impronta nel delineare il dramma della madre, nei dialoghi tra i piccoli Edgardo ed Elia, nel definire le sottili complessità dei sentimenti e delle relazioni), la sceneggiatura è liberamente ispirata a Il caso Mortara di Daniele Scalise (Mondadori).
Il cast riconferma Fabrizio Gifuni come (perfetto) inquisitore, Fausto Russo Alesi (sempre credibile in tutte espressioni) è Momolo, Paolo Pietrobon Pio IX. Svetta Barbara Ronchi alla sua migliore interpretazione come madre del “rapito”, Filippo Timi (il cardinale Antonelli), Leonardo Maltese (Edgardo da grande). Montaggio pulito e serrato di Francesca Calvelli (con Simone Mariotti), mentre la fotografia è di Francesco Di Giacomo con luci caravaggesche che sottolineano il dramma e, mediante il lume di candela, scolpiscono sui volti i sentimenti.
Un titolo convertito
La conversione è stato il titolo di lavoro (più in sintonia con la vicenda) che ha contraddistinto il progetto dal primo annuncio sino all’arrivo a Cannes. Lo spettatore è chiamato a giudicare il film dopo averlo visto, ma trattandosi di fatti accaduti dalle conseguenze clamorose, indirizzare il pubblico - che conoscerà i fatti solo per come li vedrà sullo schermo – parlando in modo inappellabile di “rapimento” e attribuendone la responsabilità a Pio IX (come da locandina diffusa) segna l’ottimo lavoro del regista piacentino.
Il film è ben riuscito e prende per mano (e per i sentimenti) lo spettatore, guidandolo dentro la vicenda e il suo tempo, ricordando le condizioni degli ebrei nei ghetti di Bologna e Roma nell’Ottocento, della perdita forzosa ma provvidenziale del potere temporale della Chiesa, di un’Italia per una parte importante ancora “da fare”.
Bellocchio con sincerità affronta la storia senza ideologie e pregiudizi ma rimanendo aderente ai fatti (sul Risorgimento preziosa la collaborazione di Pina Totaro) mostra sfumature e contraddizioni di tutte le parti in causa (e non solo dell’istituzione ecclesiastica) e - con la solita maestria - la complessità psicologica dei protagonisti. Sempre con rispetto, non solo formale, dei dati di fede cristiani, ebraici e della causa risorgimentale.
Se le due parti della vita di Mortara nel film fossero state più equilibrate - l’infanzia successiva al prelevamento dalla famiglia, rispetto agli anni solo accennati della formazione sacerdotale e i primi da prete - potremmo parlare di un originalissimo romanzo di formazione (anche se la vicenda è reale) dai toni drammatici.
Rimane così in ombra (peccato, si poteva attingere dal memoriale che ha lasciato) la questione chiave, uno dei tratti più interessanti e meno esplorati dalla pubblicistica sul caso: la libertà interiore del ragazzo, che educato forzatamente al cattolicesimo, sceglie di abbracciare la vocazione sacerdotale, confermandola con convinzione in tutta la sua lunga esistenza.
Il papa sequestrato
Una delle riduzioni che le esigenze di sceneggiatura causano riguarda Pio IX che nel film di Bellocchio è sequestrato dal “caso Mortara”, subendo così una semplificazione eccessiva, impedendo la comprensione del suo operato anche in questo controverso frangente. Siamo davanti al papato più lungo della storia, oltre 31 anni, nell’epoca in cui la modernità bussa alle porte della chiesa.
Papa Mastai Ferretti è certo il Papa che incrociò direttamente l’affaire ma non si può ridurre a ciò la sua gigantesca figura umana e spirituale. Giovanni Paolo II che lo beatificò nel 2000 disse di lui che “seppe sempre dare il primato assoluto a Dio ed ai valori spirituali. Il suo pontificato non fu facile, dovette soffrire nell'adempimento della sua missione al servizio del Vangelo. Fu molto amato, ma anche odiato e calunniato”.
Uomo di preghiera e di pensiero, confermò l'armonia tra fede e ragione, mentre nella prima fase del suo regno si guadagnò la fama di liberale. Realizzò numerose infrastrutture e diede avvio a molte riforme.
Condizionato dal suo tempo e dalla necessità di difendere i suoi territori, non mancò purtroppo - nella fase più accesa dei moti risorgimentali - di ordinare condanne a morte e repressioni, ma seppe spendersi a difesa di popoli oppressi in Polonia e in America Latina.
Tutto questo dal film non si intende, se non in una veloce battuta di Pio IX a proposito della fama di liberale guadagnata: certo non è un film sul Papa ma la stessa cura mostrata nella ricostruzione storica della vicenda Mortara avrebbe favorito una maggiore comprensione della realtà. L’interpretazione, a volte sopra le righe, di Paolo Pierobon allontana ulteriormente la persona dal personaggio, così come le originali “proiezioni oniriche” tipiche di Bellocchio (come per Cossiga in Esterno notte).
Il potere di diventare liberi
Bellocchio torna a lavorare sulle pagine controverse della storia, affrontando il tema del potere, realtà umanissima che al netto delle violenze di cui può rendersi protagonista porta inevitabilmente con se insuperabili imperfezioni.
Gli abusi e le contraddizioni di ogni genere di potere (della chiesa, degli ideali politici, dei tribunali…) che il film testimonia, pur condizionando gravemente la vita di molti non hanno la possibilità di soffocare la libertà personale che – pur nella sofferenza – la coscienza individuale custodisce.
Rapito è così un film sulla supremazia della libertà personale rispetto al potere precostituito e del percorso per affermarla.
Per Edgardo sta nella possibilità di scegliere come ragione di vita la consacrazione a quel Dio che aveva conosciuto per imposizione ed è la liberazione della sua fede dagli istinti di proselitismo (rivelativa la scena in punto di morte della madre).
È la liberazione di Cristo incagliato nelle vicende del potere di uno Stato che avrebbe ben altra missione, quella di annunciarlo (la delicata scena di Edgardo e il crocifisso).
Ma è anche il necessario processo di ritorno al Vangelo della Chiesa, appesantita dalla ragione di stato (sostenuta nei dialoghi di Pio IX con il cardinale Antonelli). È l’anelito risorgimentale che può abbracciare il sogno dell’Italia unita, è il bisogno degli ebrei di essere pari nella società (anche se alcuni tratti del personaggio di Paolo Calabresi, riferimento della comunità romana, sono caricaturali).
Il film può riaprire e riordinare il dibattito su questa sofferta pagina della storia, sperando non sollevi solo strepiti da posizioni polari e precostituite. Ma questo non è un problema di Bellocchio ma di chi giudicherà il suo lavoro solo dalla locandina.