PHOTO
Rango
Nonostante gli sforzi profusi negli anni da Dreamworks e Blue Sky (lasciamo perdere Miyazaki, che proviene da un altro mondo) fino a ieri l'animazione aveva un solo padrone: la Pixar. Oggi le cose sono cambiate. Perché è arrivato Rango, un autentico gioiellino che per maestria tecnica, profondità testuale (script del premio Oscar John Logan) e ricchezza poetica nulla ha da invidiare ai "mostri" della CGI. La cosa curiosa è che lo hanno realizzato una casa di produzione inglese attivissima a tutto campo come la GK Films di Graham King (insieme, va detto, a Blind Wink, Paramount e Nickelodeon) un regista di origini polacche senza esperienza nei cartoon come Gore Verbinski (I pirati dei caraibi) e l'Industrial Light & Magic che, pur avendo fatto la storia degli effetti speciali, non aveva scritto finora nemmeno una pagina di cinema d'animazione. Il risultato vi farà strabuzzare gli occhi neanche fossero ipertiroidei come quelli da cernia del protagonista, un camaleonte.
Mimetico per natura e attore per indole, il rettile s'improvviserà pistolero e "Rango" (omaggio al Ringo di Giuliano Gemma e agli spaghetti-western) una volta finito sul set di Polvere, sperduta cittadina del deserto, al confine tra Stati Uniti e Messico, dove troverà immondi anfibi e rettilari trasformati in saloon. Superstiti di un'epoca che è trascorsa senza passare mai (al cinema almeno), ritaglio di anticaglie e memorie del western che fu. La sapienza delle sue leggi (drammaturgiche e morali) aiuterà Rango a cavarsela ovviando a una fifa congenita e al physique du rôle improbabile. A forza di fare il verso all'eroe buono, brutto e cattivo - con tanto di apparizione auratica del cavaliere pallido Clint (Timothy Olyphant versione fotocopia di Eastwood), che riluce di mito e parola prima di andare via in sella a una borghesissima golf-car stracarica di Oscar - il camaleonte finisce per diventarlo davvero, spingendo l'assetata popolazione a una rivolta nei confronti di testuggini e poteri occulti che gli portano via l'acqua neanche fossimo a Chinatown (quella di Polanski ovviamente).
In mezzo passerà di tutto: duelli da Mezzogiorno di fuoco, rapaci imbruttiti come gli Gli uccelli di Hitchcock, gufi-mariachi che menano sfiga, highways allucinate che fanno tanto Paura e delirio a Las Vegas, case nella praterie che è meglio Non aprite quella porta, cavalcate delle valchirie che è Apocalypse Now, again. Un bazar del cinema americano più simile a un circo che a un museo, funambolico e itinerante, tracciabile sulla mappa dello Spazio Hollywoodiano a tre coordinate, sempre quelle tre: l'autostrada, la città, il deserto.
Un gioco allegro ma non troppo, condotto sul filo della parodia e dell'omaggio, servito da uno staff creativo d'eccellenza (ricordiamo solo le voci "incarnate" di Depp, Breslin, Molina, Nighy tra gli altri, le musiche di Hans Zimmer e l'emotion capture una volta tanto all'altezza), rovesciato sul finale quando si scorge la frontiera e si vede cosa è diventata, tra verniciature di verde e grattacieli, miraggi di gomma e ceffi arricchiti travestiti da giocatori di golf. Strappato il sipario della retorica bugiarda ma buona, Verbinski ci fa vedere la quinta di cartapesta della realtà che, ieri come oggi, animata o no, è finta quanto la finzione. Ma assurdamente vera e di gran lunga più sconcertante.