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Ragazzo divora universo © 2023 Netflix, Inc.
I concetti di famiglia allargata e disfunzionale sono due etichette molto strette per i Bell: separatasi dal padre Robert, la madre ex tossica Frankie vive con il nuovo compagno Lyle, che lavora in fabbrica ma arrotonda spacciando eroina per assicurare a Frankie un domani migliore (peccato non glielo abbia detto); Gus, il primogenito adolescente, non parla da anni e comunica disegnando parole nell’aria con le dita, strumento che gli è utile anche per vaticinare profezie di difficile interpretazione; Eli, tredici anni, lunghi capelli e braghe di tela, cresce allo stato brado, lontano da vincoli parentali e chiamato quotidianamente ad affrontare il bene e il male ogni qual volta si presentano fuori dalle pareti laminate della casa prefabbricata di Lyle. Finché, un giorno, il Male si presenta in persona alla porta di casa, nei panni del terribile gangster Ivan Kroll. Quella che era la parvenza illusoria di un’unità familiare svanisce per l’ennesima volta; e toccherà ad Eli e Gus farsi carico di tutto, alla ricerca di una nuova stabilità.
Che titolo magnifico, Ragazzo divora universo (in originale Boy Swallows Universe). Magnifico perché incornicia magnificamente uno dei tanti momenti extra-trama, appartenenti al quotidiano dei personaggi, un momento di pausa narrativa e di riflessione che in realtà molto ha a che fare con la storia, col suo piccolo protagonista e con la sua fame di vivere e crescere. È un entusiasmo coinvolgente, come lo è l’idea di affidare a un ragazzino di tredici anni e al suo percorso di formazione il punto di vista di un racconto altrimenti tutt’altro che originale. Ma i cliché, per un ragazzino alle prime armi, cliché non sono. E a tredici anni, e con un fratello lunatico e geniale, si ha la follia necessaria per superarli.
Ragazzo divora universo non ha il suo principale interesse nella trama (una crime story che vede coinvolta suo malgrado la scapestrata famiglia di Eli), ma nel contesto che la ospita e nei personaggi che la popolano: l’Australia di metà anni ottanta, nella fattispecie Brisbane, brulica di autentici sopravvissuti della (un)working class, ognuno col proprio spessore e il proprio passato da lasciare in eredità. Che siano brave persone, spacciatori o ex criminali, poco importa: tutto passa attraverso la condivisione di ciò che hai vicino, perché non scegli tu dove e con chi nascere. Sta a te farne tesoro e, a un certo punto, scegliere da che parte stare. L’umanità della serie, spogliata di pregiudizi e convenzioni sociali, è circondata da una natura lussureggiante che sembra non voler mai cedere il passo all’uomo e al cemento. A pochi passi dalle scalcinate abitazioni di Eli e famiglia, basta una fuga notturna o una pedalata in bicicletta per trovarsi nel mezzo di una natura incontaminata, che un po’ ricorda quella che attonita assisteva ai deliri di Bad Boy Bubby di De Heer. Ed è bello perdersi in questo caos ordinato di cui i personaggi sono parte integrante, simili a fauna incontaminata e a vegetazione incolta, lasciata semplicemente lì a crescere.
La stasi narrativa a cui sono costretti Eli e Gus (costretti alla cattività per quattro lunghi anni) porge il destro per soffermarsi su questa galleria di splendidi personaggi: l’ex galeotto Slim Halliday (un imbiancato Bryan Brown), l’agorafobico e alcolizzato Robert, padre naturale dei ragazzi (un Simon Baker irriconoscibile rispetto a The Mentalist ), la dolce e sfortunata Frankie (Phoebe Tonkin), vittima delle proprie dipendenze e capace di innamorarsi sempre e solo della persona sbagliata. Merita una menzione speciale il veterano Anthony La Paglia, anche lui impossibile da identificare sotto il make-up del boss Tytus Broz, a meno di sbirciare nei titoli di coda.
La serie procede per accumulazione, alogica nel rapporto causa-effetto, con gag di raggelato umorismo nero, improvvise esplosioni di violenza che coinvolgono adulti e bambini, inquietanti misteri che restano senza risposta (come il telefono rosso nei sotterranei di casa Bell, rotto eppure funzionante: una metafora dell’inconscio di Eli?). Una totale anarchia strutturale che tutto sommato coinvolge, nella sua genuinità. Il problema sopraggiunge quando i nodi (narrativi) devono tornare al pettine; con l’aggravante che nel frattempo Eli diventa diciassettenne, e Zac Burgess sostituisce il fenomenale Felix Cameron, la cui performance fino a quel momento aveva incollato allo schermo lo spettatore. Le ultime due puntate della miniserie finiscono così per abiurare la sperimentazione e approdare a un giallo piuttosto convenzionale in cui le indagini e la risoluzione del caso interessano poco, forse solo al giovane Eli che sta trovando il suo posto nel mondo e diventando uomo (ma comunque la si pensi, e per quanto la storia ricalchi fedelmente il romanzo di Dalton, la sua love story con la giornalista Caitlyn Spies che lo aveva accolto quattro anni prima grida vendetta al cielo). A farne le spese sono soprattutto i personaggi di contorno, talmente pieni di umanità da riempire le pieghe del racconto, di colpo ridotti a una limitante monodimensionalità (col povero Simon Baker chiamato a riprodurre all’infinito la macchietta di suonato di mezz’età, ma soprattutto Gus che da mina vagante diventa un fidanzatino amorevole e poco altro). Così anche i difetti meno evidenti iniziano a risaltare, come il ricorso ai deus ex machina per risolvere situazioni intricate o crearne di nuove (Alex Bermuda, il detenuto amico di penna di Eli; Teddy, l’amico di Lyle invaghitosi di Frankie, riportato in scena e liquidato a tempo di record).
Si chiude Netflix mormorando: “Peccato”. Tanta carne al fuoco: era prevedibile che non tutto riuscisse. Ma per due terzi del prodotto, lo spettacolo vale la visione: e vi innamorerete del coraggio e dell’incoscienza del piccolo Eli, che culmina in una memorabile “controevasione” nel carcere dove è detenuta sua madre. Solo per parlare con lei.