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Rafiki
Rafiki in swahili vuol dire amico. Ma il film della regista Wanuri Kahiu – prima opera keniota al Festival di Cannes, ospitata in Un Certain Regard – parla soprattutto d’amore.
È quello che nasce, del tutto imprevisto, tra due ragazze agli antipodi. Una è Kena, figlia di genitori separati, skater e fisionomia da maschiaccio, l’altra è Kiki, lunghissime trecce multicolore e trucco esagerato, che di tanto in tanto si produce in alcuni balletti stradali insieme a due amiche.
Entrambe sono accomunate però da una cosa: i rispettivi padri sono candidati alle prossime elezioni e il solo fatto di iniziare una frequentazione è motivo di frizione. Ma quel progressivo conoscersi andrà al di là della semplice simpatia, e in un contesto dove l’omosessualità è anche bandita per legge la situazione finirà per esplodere.
Soffre abbastanza le consuete derive naif di parecchio cinema africano, questo Rafiki, ma dalla sua ha indubbiamente la portata di evidenti e fresche contaminazioni tra ricerca visiva e impatto sonoro, sforando addirittura dalle parti del musical in alcuni momenti, oltre a regalare alle sue due giovani protagoniste frammenti di luminosità che riportano ai fasci di luce del melodramma moderno.
Un film soprattutto coraggioso – e ovviamente bandito nel proprio paese d’origine (dove è prevista una pena di 14 anni di carcere per i rapporti omosessuali), “una vera e propria violazione della libertà d’espressione”, ha detto la regista – capace di raccontare la nascita di un amore con una pudicizia e una dolcezza quasi commoventi, senza dimenticare la drammaticità di alcune dinamiche con cui, ancora oggi, in alcune parti del mondo, l’oppressione è all’ordine del giorno.