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Raffaella Carrà (credits: Aldo Liverani SAS)
La fine è nell’inizio e da lì si riparte: nei primi minuti di Raffa c’è subito la morte della protagonista, avvenuta il 5 luglio 2021 dopo una breve malattia. Annunciata in diverse lingue per mettere subito in chiaro lo statuto internazionale di un’icona e l’influenza culturale della showgirl più importante d’Europa. Ma anche per aprire un cerchio, che ha a che fare con il mistero di una donna che, nel momento estremo, decide di escludere tutti dalla cerimonia degli addii, tenersi il dolore per sé, vivere gli ultimi giorni senza fare troppo rumore. Proprio lei, che il rumore l’ha cantato, ballato, incarnato.
È costruito in maniera circolare, Raffa, il documentario diretto da Daniele Luchetti (prodotto da Fremantle, in sala dal 6 al 12 luglio con Nexo Digital, prossimamente su Disney+ in tre parti) in gloria della Carrà, personaggio che nella scrittura squisitamente popolare di Cristiana Farina (la creatrice di Mare fuori) diventa figura complessa e diretta, rigida e libera, antica e moderna.
Dalla fine si torna all’inizio seguendo l’andamento cronologico: l’infanzia a Bellaria-Igea Marina, l’abbandono del padre, la ricerca di una strada che non può essere né la danza accademica nella quale non eccelle né il cinema che non la valorizza, l’epifania televisiva, la conquista della Spagna post-franchista, le tournée internazionali, i successi nel piccolo schermo, le discese ardite e le risalite, il privato.
Tessitura classica: materiali di repertorio (tantissimi e non banali), interviste circostanziate di parenti, amici, collaboratori, ammiratori (citiamone alcuni: Barbara Boncompagni e Salvo Guercio che sono anche tra gli autori, Marco Bellocchio che studiava con lei al Centro Sperimentale, la vecchia tata, la fedele assistente, la scrittrice Caterina Rita che è la vera, strepitosa guida del film fino a una incredibile apparizione di Sergio Japino), alcuni innesti di fiction che testimoniano la non pretestuosità del coinvolgimento di Luchetti (che cura nel setting, con i costumi più celebri che fanno capolino nei luoghi del cuore e le scenografie piene di riferimenti e allusioni).
Eppure Raffa abbraccia con coraggio un’ambizione romanzesca che pone al centro una pragmatica e disciplinata self-made woman che è anche un’antieroina romantica e malinconica, non immola l’occasione dell’omaggio alla trappola della comodità agiografica (un ritratto che non elude i difetti, in primis la mania del controllo, lo stakanovismo, la rigidità), scandaglia quelle zone d’ombra invero lasciate in piena luce dalla stessa Carrà, sapiente e marziale amministratrice di sé.
Lavorando sulla dicotomia tra la privata Pelloni (il vero cognome) e la pubblica Carrà, Raffa restituisce non solo una figura che ha attraversato sette decenni di storia italiana, ma anche una donna che in tutti questi anni ha rappresentato le stagioni di un Paese che è praticamente nato con lei (sotto le bombe del 1943, due anni prima della fine della guerra), le evoluzioni del costume, l’aderenza ai riti di una cultura ancestrale: la Carrà è stata l’oggetto del desiderio, il termometro della rivoluzione sessuale (l’ombelico da cui tutto sgorga), una picconatrice dei regimi (memorabile il passaggio di Fiesta sulle immagini del funerale di Franco: il sapiente montaggio è di Luca Manes, Chiara Ronchini ed Emanuele Svezia), l’ambasciatrice del pop italiano nel mondo, una donna di potere (forse la prima a guadagnare certe cifre, tanto da diventare oggetto di interrogazioni parlamentari e oggetto di campagne diffamatorie), una “proprietà” del servizio pubblico (gli spettatori non la seguono quando passa a Fininvest), la padrona di casa che risolve i problemi (Pronto Raffaella? come epicentro dei bisogni del paese reale), la grande madre di una comunità che si sentiva fuori posto in una società ostile.
Più d’ogni altra cosa una azdora romagnola, colei che tutto regge e “usa” gli uomini per raggiungere obiettivi: la Carrà come punto di raccordo tra la tradizione matriarcale di una cultura operosa, gioviale, orgogliosa e concreta come quella emiliano-romagnola (i natali sono bolognesi) e l’innovazione di un femminismo inconsapevole perché messo in atto con la naturalezza di chi non ha sovrastrutture ideologiche. E di chi ha vissuto costantemente con il fantasma di un padre assente eppure presente come un macigno: colei che ha subito – e forse mai superato – il trauma dell’abbandono si ritrova, all’apice della maturità artistica, a ricongiungere le persone separate dalla vita (Carràmba, che sorpresa!). Quasi a voler restituire ciò che le è stato negato: la possibilità di un padre, di una guida, di un legame, di un amore. Come dice un suo collaboratore spagnolo, se dovessimo trovare un titolo alternativo, sarebbe: “Raffaella, perché non vuoi che nessuno ti baci?”. Il mistero iniziale resta insoluto, ma è giusto così.