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Riccardo Scamarcio e Volker Bruch in Race for Glory - Audi vs Lancia
È il sottotitolo a prometterci il racconto di una grande rivalità, sul modello neanche troppo velato di Le Mans ’66 – La grande sfida (sul duello tra Ford e Ferrari). E, complice la presenza di Daniel Brühl, c’è anche un anelito di Rush, dove però la gara era soprattutto tra i piloti. Ma, di quei due riferimenti, a Race for Glory – Audi vs Lancia manca più di qualcosa, perché non ci sono né la tensione agonistica e il portato allegorico del film di James Mangold né gli inseguimenti adrenalinici e le conflittualità di quello di Ron Howard.
Poco male, dopotutto: la via italiana al film di corsa si costruisce anche nell’autonomia, distaccandosi dall’immaginario americano e attingendo alla mitologia locale. Le storie non mancano, d’altronde: diretto da Stefano Mordini e scritto da Filippo Bologna, Race for Glory ricostruisce con licenze politiche (dichiarate nel finale) la vittoria al rally del 1983, l’ultima per un’auto con due ruote motrici. Dimenticandosi, però, l’epica dell’impresa.
Un problema, dato che che quello tra le due case è ricordato sin dall’incipit come un duello tra Davide e Golia: da una parte l’italiano Cesare Fioro, direttore sportivo di una Lancia ancora molto “artigianale” e sempre sulle barricate con i vertici aziendali per difendere un budget all’altezza delle ambizioni; dall’altra, il tedesco Roland Gumpert, un innovatore che ha rivoluzionato le corse automobilistiche.
Il rapporto tra i due, rispettivamente Riccardo Scamarcio – anima del progetto: oltre che ideatore e attore è coproduttore con la sua Lebowski – e Brühl, resta sulla superficie della competizione, come se lo scontro fosse delegato alle macchine. Forse l’idea non è campata in aria: sono due mondi opposti, l’uno creativo e l’altro tecnico, la geniale arte dell’accrocco contro la sublime precisione dell’ingranaggio. Si patteggia per Fioro, ovviamente, ma Gumpert non ha nemmeno la statura titanica dell’avversario: sembra, come altri personaggi del film, una figura scontornata dai quotidiani sportivi.
È ammirevole vedere come, a differenza di tanti film a tema, la retorica sia fortunatamente in sordina, ma il contraccolpo è che Race for Glory non ha il passo della leggenda, cerca la storia e trova la cronaca (pigro ma sintomatico l’espediente dell’intervista), illustra e spiega senza andare troppo in profondità, un corretto bignami su quell’evento storico e su un mondo ormai perduto (dalla sua ha una credibile ricostruzione d’epoca). A livello industriale è un’operazione interessante: c’è spazio, nel mercato italiano, per un film così dichiaratamente maschile?
La cosa migliore: le musiche di Venerus, che restituiscono l’aria del tempo e intercettano l’orizzonte emotivo; la cosa peggiore: il cameo super scult di Lapo Elkann nei panni di suo nonno Gianni Agnelli.