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Quiet Life - Credits_Les_Films_du_Worso
Si sistemano uno dopo l'altro al di qua della porta di casa, quasi come a mettersi in posa per una delle più classiche istantanee familiari. È la prima immagine del nuovo film diretto dal greco Alexandros Avranas, Quiet Life, ospitato in Orizzonti a Venezia undici anni dopo Miss Violence, titolo che gli valse il Leone d'argento per la migliore regia.
In fondo la vita tranquilla è proprio ciò che anela la famiglia di Sergei, rifugiato russo nella Svezia del 2018. Lui, la moglie Natalia e le due figlie sono in attesa che l’Agenzia Nazionale per l’Immigrazione decida sulla loro domanda d’asilo, nel frattempo marito e moglie lavorano sodo, mandano le figlie alla scuola svedese, imparano la lingua, si sottopongono a regolari ispezioni da parte delle autorità, tutto nella speranza di diventare un giorno cittadini svedesi.
Ma quando la loro richiesta d’asilo viene respinta, Katja, la figlia più piccola, ha un collasso ed entra in un misterioso stato di coma. Il tempo per ricorrere in appello è poco, però, quindi Sergei e Natalia cercano di convincere la più grande, Alina, a testimoniare in merito all'aggressione subita in Russia dal padre. In realtà però quel giorno in macchina con lui c'era proprio Katja, che fino a quel momento i due genitori avevano preferito non esporre per non farle rivivere quel trauma.
Attraversato da una tensione costante, controllatissimo dal punto di vista formale, il film di Avranas nasce dall'ossessione del regista stesso relativa alla "sindrome della rassegnazione", fenomeno che negli ultimi anni soprattutto in Svezia ha colpito moltissimi soggetti: causata dal trauma della migrazione, provoca una riduzione dello stato di coscienza, più o meno duratura, in bambini e ragazzi.
Lo spunto è davvero interessante e lo sviluppo lo è altrettanto, a metà strada tra dramma sociale e asettica distopia sul nostro presente: la felicità è qualcosa che possiamo creare? "Nella speranza di una vita dignitosa, milioni di bambini sono costretti a spostarsi e ad abbandonare le loro case per via di guerre, povertà o repressione politica. Ma come possono i genitori garantire protezione e stabilità ai loro figli nella consapevolezza che la realtà dei fatti è tutt’altro che ottimistica?", quello che si chiede Avranas, bravo come detto a mantenere sempre in bilico la progressione degli eventi e a costruire inquadrature mai banali (la sequenza del giro in macchina in garage con la musica a tutto volume resta impressa), a volte però troppo schiavo del suo cinema geometrico e vagamente sadico: la testimonianza di Alina, che poco a poco diventa vero e proprio interrogatorio, con le lacrime della bambina in primo piano insistito, è abbastanza micidiale.