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Toni Servillo in Qui rido io di Mario Martone - Foto Mario Spada
Dietro la maschera. Ad inizio ‘900 il re incontrastato del teatro napoletano (e italiano) è Eduardo Scarpetta. Inventore del teatro dialettale, attore e commediografo, sbanca il botteghino grazie al personaggio di Felice Sciosciammocca (Miseria e nobiltà), personaggio capace di far dimenticare Pulcinella al pubblico partenopeo.
Arrivista e ambizioso, il successo lo ha trasformato in un uomo ricchissimo: la simbiosi tra vita e teatro è massima, al punto che tanto sul palcoscenico quanto nel dietro le quinte gravita tutto il suo nutrito e complesso nucleo familiare.
Moglie, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi (tra i quali i mai riconosciuti Titina, Eduardo e Peppino De Filippo…), Scarpetta domina la scena e il focolare.
Fino a quando non decide di imbarcarsi in un azzardo, la parodia de La figlia di Iorio, tragedia firmata dall’allora vate Gabriele D’Annunzio: denunciato per plagio (prima causa sul diritto d’autore in Italia), dovrà far fronte ad un periodo in cui quel delicato equilibrio creato fino ad allora rischia di andare in frantumi.
Attraverso la ricostruzione d’epoca di un periodo storico cruciale del nostro paese, dal punto di vista politico culturale e sociale (decisiva in tal senso l’auto-arringa conclusiva del protagonista – nel 1908 – in cui si profetizzano i prodromi di quanto avverrà da lì a un decennio), Mario Martone prende in prestito dallo stesso Scarpetta la frase che fece apporre sulla facciata della sua Villa La Santarella: Qui rido io diventa allora “epigrafe” doppiamente simbolica con cui provare a rimettere ordine nell’infinito disordine entro il quale si muoveva l’artista e l’uomo.
Toni Servillo giganteggia nel restituire la dimensione di una maschera capace di sedurre le folle e governare il sempre più ingovernabile apparato del dietro le quinte, mentre intorno a lui uno stuolo di ben più che dignitosi comprimari (da Maria Nazionale a Cristiana Dell’Anna, da Gianfelice Imparato ad Antonia Truppo, da Eduardo Scarpetta – che interpreta Vincenzo, di fatto il suo bisnonno – a Roberto De Francesco e Lino Musella, rispettivamente Salvatore di Giacomo e Benedetto Croce) fornisce il necessario e ineludibile apporto per l’indispensabile impalcatura destinata a sorreggere l’intero impianto.
Alessandro Manna - Eduardo De Filippo, Cristiana dell'Anna - Luisa De Filippo, Toni Servillo - Eduardo Scarpetta, Salvatore Battista - Peppino De Filippo, Marzia Onorato - Titina De Filippo - Foto di Mario SpadaTeatralizzando inevitabilmente, ma non per questo togliendo smalto all’intreccio di dinamiche familiari disfunzionali e malinconiche, Martone regala momenti di grande spessore filologico e filosofico (la bagarre al Teatro Mercadante quando gli infervorati dannunziani si scagliarono contro la parodia messa in atto da Scarpetta, oppure l’incontro con Benedetto Croce, la cui perizia fu decisiva nel riconoscere quanto “la parodia fosse nell’arte perché già presente nella vita”, pur riconoscendo mediocre l’opera di Scarpetta) ma, soprattutto, ragiona sulle varie declinazioni del potere: quello delle nuove mode che impongono l’affermarsi di tendenze affini allo “spirito del tempo”, contrapposto a quello del capocomico-padrone che pretende di instradare la sterminata figliolanza a portare avanti il frutto del suo genio (senza però mai riconoscerne ufficialmente il legame di sangue).
Un’eredità che la storia poi non ha potuto far altro che riconoscere, e celebrare, proprio grazie alla successiva affermazione di uno dei più grandi e importanti autori teatrali del Novecento italiano, Eduardo (De Filippo). Che da bambino trascorreva le nottate a ricopiare le commedie di quel padre “non ufficiale”, e a scriverne di proprie.