Così François Truffaut ne Il cinema secondo Hitchcock teorizzava il “grande film malato”: “Un capolavoro abortito […] che soffre generalmente di una dose eccessiva di sincerità, che, paradossalmente, lo rende chiaro agli aficionados e più oscuro al pubblico abituato a mandar giù delle misture nel cui dosaggio prevale l’astuzia piuttosto che la confessione diretta”. Ora, lui metteva in campo anche gli “errori di percorso” e le “riprese avvelenate dall’odio o accecate dall’amore” – il che ci porta nei territori del gossip più che della critica – ma anche – e qui si sente la voce del critico che fu in principio – “uno scarto troppo forte tra intenzione ed esecuzione, un impantanarsi non percepibile o un’esaltazione ingannatrice”.

Non sappiamo bene se la descrizione si attagli al caso, eppure non possiamo non interrogarci sull’eventuale natura “malata” di Queer, il film più desiderato da Luca Guadagnino, arrivato in Concorso a Venezia 81 dopo lunga gestazione, scritto da Justin Kuritzkes (lo stesso di Challengers) e realizzato insieme agli abituali collaboratori (Sayombhu Mukdeeprom alla fotografia, Marco Costa al montaggio, Trent Reznor e Atticus Ross per le musiche, Stefano Baisi come scenografo, Jonathan Anderson, direttore creativo di J.W.Anderson e Loewe, per i costumi).

Daniel Craig in Queer
Daniel Craig in Queer

Daniel Craig in Queer

(Yannis Drakoulidis)

All’origine c’è il romanzo omonimo (in Italia fu tradotto con il titolo Checca, oggi espunto in favore di quello originale) che William Burroughs scrisse tra il 1951 e il 1953, come estensione del precedente Junky (da noi noto anche come La scimmia sulla schiena), poi giudicato troppo breve e poco interessante per la pubblicazione. Burroughs mise da parte il testo, riteneva che la censura americana l’avrebbe massacrato per la tematica omosessuale e l’oscenità di molti passaggi, e lo pubblicò solo nel 1985 solo per onorare un vantaggioso contratto editoriale. Pare che lo scrittore non avesse più letto il manoscritto per trent’anni, traumatizzato da tutto ciò che aveva innescato quel romanzo (l’accidentale colpo di pistola che causò la morte della moglie Joan, episodio mai del tutto chiarito e ossessione fino alla fine).

Guadagnino lo lesse a diciassette anni, decise che prima o poi ne avrebbe fatto un film: ci è riuscito a cinquantatré, forte di un credito internazionale che l’ha reso tra i nostri massimi autori (la consacrazione di Chiamami col tuo nome, il successo di Challengers, il lavoro da produttore non solo dei suoi film come Enea di Pietro Castellitto e Diciannove di Giovanni Tortorici) e gli ha garantito un budget enorme (più di 50 milioni di euro). Ed è lui stesso ad ammettere che, nel consegnare Queer al grande schermo, ha voluto essere fedele al giovane che era, con la curiosità quasi infantile nei confronti di un mondo perduto e una generosa disponibilità a riflettersi nelle altrui disperazioni.

Una prospettiva che gli permette di leggere il romanzo, ambientato nei primi anni Cinquanta prima a Città del Messico, poi in alcuni paesi sudamericani e infine di nuovo nella capitale messicana, attraverso il prisma romantico più che su quello dello spaesamento alcolico – d’altronde uno dei locali frequentati non si chiama A nuestros amores, traduzione spagnola che rivendica l’imperitura germinazione dal film di Maurice Pialat? – interpretando la storia nei termini di un melodramma erotico, dunque lisergico, alla fine nostalgico sul rapporto tra l’expat cinquantenne William Lee e il giovane ex militare Eugene Allerton.

Drew Starkey e Daniel Craig in Queer
Drew Starkey e Daniel Craig in Queer

Drew Starkey e Daniel Craig in Queer

(Yannis Drakoulidis)

Chissà cosa avrebbe detto Burroughs (Daniel Craig, nella sua interpretazione senza filtri, non si allontana molto dall’iconografia dello scrittore, specialmente nel finale) di fronte a queste immagini che restituiscono la frammentarietà del suo scritto, comprese l’angoscia della fine e la calata negli abissi (non a caso Lee legge Sotto il vulcano). Forse sarebbe stato meno radicale di Paul Bowles, che preferiva non parlare dell’adattamento che Bernardo Bertolucci fece de Il tè nel deserto, un film che dialoga abbastanza con Queer. Non fosse altro per la devozione di Guadagnino verso quel “piccolo regista underground che si è infiltrato nel sistema industriale per creare disordine”.

Questa lezione di Bertolucci torna proprio in Queer che, dopo i titoli di testa che introducono alla storia mettendo in fila oggetti simbolici (un po’ alla Chiamami col tuo nome), dichiara subito la sua volontà di sovversione mettendo in scena tabù (la fellatio praticata su un ragazzo da un divo noto soprattutto per un ruolo muscolare, sulla falsariga della masturbazione che si vedeva ne La luna) e lerciume (le unghia luride, il sudore intriso negli abiti, la sporcizia degli interni), delegando l’incanto all’apparizione epifanica di Drew Starkey, il più “pulito” dei personaggi benché simbolicamente danneggiato dalla guerra (ha una costola rotta).

Tutto accade all’interno di un mondo che è solo apparentemente una ricostruzione fedele dell’originale Città del Messico, quanto piuttosto un set (a Cinecittà) che evoca l’atmosfera degradata, la trascuratezza estetica e la calura nauseante di un purgatorio – o un’anticamera dell’inferno, dipende da come la si vede – dove vagano anime perdute in attesa della fine, coscienti di rischiare ogni giorno alla vita eppure esaltati dal bisogno di sfidare la morte, che sia bevendo fino a soffocare o andando a letto con sconosciuti.

Daniel Craig e Drew Starkey in Queer
Daniel Craig e Drew Starkey in Queer

Daniel Craig e Drew Starkey in Queer

(Yannis Drakoulidis)

Nella sua prima parte, Queer è decadente quanto basta per mettere in luce la possibilità di un amore che non sa farsi cura. È il momento migliore del film (quasi un’ora delle due e quindici minuti che si sono salvate dall’originale metraggio che superava abbondantemente le due ore e mezza), il più centrato nel suo stare nella realtà senza sconfinare nel realismo, un pezzo di cinema che funziona proprio perché entra in medias res, introducendosi a personaggi e situazioni senza il dovere di spiegare ogni cosa, delegando molto agli sprazzi onirici dovuti alle allucinazioni tossiche di Lee.

È in questi frangenti che Guadagnino trasforma Queer in una performance che dialoga con certi lampi di Suspiria, sia coreografando i movimenti che trasformano lo squallore della dipendenza nella rivelazione dell’onirico sia allineando immagini simboliche capaci di aprirci squarci nella mente di un uomo devastato dal desiderio di sopravvivere.

Ed è qui che il cinefilo Guadagnino ci informa delle sue intenzioni attraverso il cinema stesso, regalandoci la citazione di Orfeo di Jean Cocteau – uno psicodramma autoriflessivo non lontano da certe sperimentazioni di Maya Deren, uscito in quel 1950 in cui è ambientato Queer – per metterci in guardia sulle falle del realismo e sul coefficiente fantastico del film che stiamo vedendo.

Daniel Craig e Lesley Manville in Queer
Daniel Craig e Lesley Manville in Queer

Daniel Craig e Lesley Manville in Queer

(Yannis Drakoulidis)

Purtroppo, dalla seconda parte, Queer sembra girare un po’ a vuoto, illustrando in modo forse fin troppo pedissequo la dipendenza da oppiacei di Lee e la ricerca dell’ayahuasca (che gli americani chiamano yage) ovvero una radice allucinogena che può donare il potere della telepatia a chi l’assume (il motivo è evidente, ai limiti dell’allegoria) mentre l’amore verso Allerton è messo alla prova costantemente. Fino all’avventura nella giungla, quasi fumettistica alla maniera dei film esotici degli anni Cinquanta, in cui lascia perplessi perfino l’apparizione della solitamente magistrale Lesley Manville (suo marito è interpretato dal regista argentino Lisandro Alonso: scelta non estemporanea).

E se è vero che, d’accordo, dobbiamo abbandonare la pretesa realistica per accettare un momento sospeso tra cronaca e trip, è altrettanto vero che quell’ossessione romantica della chimera che postula tutto il film trova una sintesi solo quando torniamo nei territori astratti dell’allucinazione, con una memorabile fusione di corpi (c’è anche un po’ di David Cronenberg, che d’altronde tradusse Il pasto nudo di Burroughs, romanzo e vita) che si riallaccia ai tentativi di contatto fisico immaginati da Lee nella prima parte e danno consistenza alla frase che segna il film: “Sono disincarnato”.

Ora, non sappiamo dire se Queer appartenga effettivamente alla genia dei grandi film malati. E forse non è nemmeno importante relegare tutto a questi antichi schematismi. Tuttavia, l’impressione è che sia un capolavoro mancato che soffre di troppo amore (la scelta di usare come location anche l’Orto Botanico e il quartiere Kalsa della natia Palermo non sembra casuale), tanto audace quanto farraginoso. È comunque il film di un grande regista, spiazzante e colto, che interroga il cinema e sfida chi guarda.